Mestre e Venezia
Novità Legislative
In questa sezione verranno riportate tutte le novità e le informazioni in materia legislativa, al servizio dei clienti dello Studio Legale Associato Trivellato & de Luigi. In questo modo si potrà essere sempre aggiornati sulle materie più importanti nelle controversie legali in materia di diritto civile, risarcimenti, infortuni stradali e negli altri ambiti di competenza dello Studio.
Lesioni stradali:
che cosa cambia dopo la L. N° 41/2016
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Si tratta di una normativa molto severa che aumenta i minimi e massimi edittali ris petto alle ipotesi di omicidio “colposo” previsto dall’art. 590 C.P. e comporta conseguenze molto gravi sotto il profilo del computo della pena (reclusione anche fino a 12 anni) e accessorie (revoca della patente per minimo 5 anni) in quanto, ad esempio:
- non permette (tranne che nel caso di omicidio stradale e/o lesioni stradali “semplice” il giudizio di equivalenza e/o prevalenza di concorrenti circostanze attenuanti;
- prevede aumenti di pena “speciali” e minimi edittali di per sé elevati.
- rende pressoché inattuabile la sospensione condizionale della pena in caso di omicidio colposo.
- prevede l’arresto in flagranza, tranne il caso in cui il conducente si fermi e presti assistenza (solo in caso di lesioni personali colpose).
- le lesioni personali sono perseguibili d’ufficio (precedentemente solo a querela) e sono ora sempre di competenza del Tribunale monocratico (non più G.d.P.).
- è possibile l’accertamento dello stato d’ebbrezza e/o alterazione collegata a uso di sostanze stupefacenti/psicotrope attraverso l’esecuzione coattiva degli esami in caso di rifiuto del soggetto.
Amministrazione di sostegno:
i documenti necessari
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In caso di ricorso per nomina di Amministratore di Sostegno, al fine di diminuire le tempistiche, sarà utile portare in Studio i seguenti documenti:
- Certificato di stato famiglia del Beneficiario;
- Certificato storico di famiglia;
- Documentazione medica a firma del medico di base, del medico curante o delle strutture del servizio sanitario che hanno avuto o hanno in cura il beneficiario, dalla quale risulti se e in quale misura sussista compromissione delle facoltà intellettive, cognitive, fisiche o volitive del soggetto beneficiario con riguardo alle decisioni necessarie per la cura degli interessi dello stesso;
- Documentazione o elencazione dei beni mobili, immobili, crediti, depositi bancari ed altre attività appartenenti al soggetto beneficiario;
- Fotocopia documento identità e codice fiscale del Beneficiario e del/i Ricorrente/i.
Avvocato responsabilità medica Mestre Venezia | Le infezioni ospedaliere (ICA)
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Avvocato Mestre Venezia | Le infezioni ospedaliere sono quelle patologie che insorgono durante il ricovero in ospedale o entro un determinato lasso di tempo da quando il paziente è stato dimesso. Venivano dette infezioni nosocomiali ed oggi sono indicate con l’acronimo “ICA” che sta per “infezioni correlate all’assistenza”. Rappresentano per le Strutture Sanitarie (di vario titolo), oltre che per la Società in generale, un fenomeno rilevante sia sotto il profilo clinico che sotto quello economico.
Tra i cosiddetti eventi avversi, nei pazienti ricoverati, le ICA rappresentano una percentuale importante, ormai preponderante, e rientrano tra le problematiche principali che hanno tutti i sistemi moderni di salute pubblica (link). Tanto più perché l’uso eccessivo e non appropriato degli antibiotici ha creato le condizioni per sempre nuove e maggiori resistenze agli antibiotici stessi. Sono infezioni resistenti spesso anche ai trattamenti antimicrobici più complessi.
Contrarre un’infezione correlata all’assistenza sanitaria può provocare gravi danni (sino a portare alla morte). La maggior parte della ICA interessano il tratto urinario, l’apparto respiratorio, le ferite chirurgiche e le infezioni sistemiche (basti pensare alla sepsi).
Di casi relativi alle infezioni correlate all’assistenza (ICA) si occupa l’avvocato responsabilità medica studio legale Trivellato & de Luigi Mestre Venezia.
La Cassazione si è pronunciata nel corso del 2023 con importantissime pronunce e, tra queste, due tra di loro ravvicinate sono la n° 5808 del 27.02.2023 e la n° 6386 del 3.03.2023.
La Suprema Corte, nell’affrontare la tematica, ha richiamato dapprima la precedente pronuncia n°4864 del 23/02/2021 che innanzitutto stabiliva: “In applicazione dei principi sul riparto dell’onere probatorio in materia di responsabilità sanitaria, secondo cui spetta al paziente provare il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre alla struttura sanitaria compete la prova di aver adempiuto esattamente la prestazione o la prova della causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione, con riferimento specifico alle infezioni nosocomiali, spetterà alla struttura provare: 1) di aver adottato tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e dalle leges artis, al fine di prevenire l’insorgenza di patologie infettive; 2) di dimostrare di aver applicato i protocolli di prevenzione delle infezioni nel caso specifico”.
Quindi, la prova del nesso causale tra il comportamento dei sanitari e l’evento dannoso deve essere fornita da chi agisce per il risarcimento dei danni da ICA; essa deve essere fornita in termini probabilistici, e non di assoluta certezza. Al contrario, la prova dell’adozione e dell’adeguato rispetto dei necessari standard di igiene e prevenzione non può, ragionevolmente, incombere sul paziente danneggiato.
Occorrerà, inoltre, che siano rispettati il criterio temporale (“il numero di giorni trascorsi dopo le dimissioni dall’ospedale") il criterio topografico (“insorgenza dell’infezione nel sito chirurgico interessato dall’intervento in assenza di patologie preesistenti e di cause sopravvenute eziologicamente rilevanti, da valutarsi secondo il criterio della cd. “probabilità prevalente“) e, infine, il criterio clinico ovvero quali tra le necessarie misure di prevenzione delle infezioni ospedaliere era necessario o, quantomeno, opportuno adottare.
Assume carattere decisivo la circostanza per cui si richiede che la vittima abbia contratto l’infezione correlata all'assistenza all’interno dell’ospedale e durante il ricovero.
Ergo in sostanza al fine di poter individuare gli estremi della responsabilità della Struttura Sanitaria rilevano queste variabili che saranno legati al numero di giorni trascorsi dopo le dimissioni dall’ospedale, all’insorgenza dell’infezione ed al criterio clinico, volto ad individuare le misure che era necessario adottare data la specifica infezione.
Trivellato & de Luigi studio legale associato fornisce adeguata assistenza legale a chi fosse interessato ad approfondire la valutazione di casi di risarcimento danni malasanità e responsabilità medica Mestre Venezia.
Ma la vera novità è un quanto mai dettagliato elenco degli oneri probatori da assolvere, gravanti sulla Struttura Sanitaria, per attestare che le misure di prevenzione siano state rispettate:
a) L’indicazione dei protocolli relativi alla disinfezione, disinfestazione e sterilizzazione di ambienti e materiali;
b) L’indicazione delle modalità di raccolta, lavaggio e disinfezione della biancheria;
c) L’indicazione delle forme di smaltimento dei rifiuti solidi e dei liquami;
d) Le caratteristiche della mensa e degli strumenti di distribuzione di cibi e bevande;
e) Le modalità di preparazione, conservazione ed uso dei disinfettanti;
f) La qualità dell’aria e degli impianti di condizionamento;
g) L’attivazione di un sistema di sorveglianza e di notifica;
h) L’indicazione dei criteri di controllo e di limitazione dell’accesso ai visitatori;
i) Le procedure di controllo degli infortuni e delle malattie del personale e le profilassi vaccinali;
j) L’indicazione del rapporto numerico tra personale e degenti;
k) La sorveglianza basata sui dati microbiologici di laboratorio;
l) La redazione di un report da parte delle direzioni dei reparti a comunicare alle direzioni sanitarie al fine di monitorare i germi patogeni-sentinella;
m) L’indicazione dell’orario della effettiva esecuzione delle attività di prevenzione del rischio.
Quindi, a fronte della dimostrazione - resa in via presuntiva - da parte del danneggiato circa l’aver contratto l’infezione in ospedale (link), l’Ente ospedaliero dovrà dimostrare di aver svolto una serie di attività determinate di prevenzione del rischio di ICA, fornendo la concreta prova di averle realizzate.
Questa sentenza come detto è significativa perché precisa puntualmente gli obblighi a carico delle Strutture Sanitarie in materia di prevenzione delle infezioni nosocomiali (oltre che individuare gli specifici obblighi soggettivi delle figure apicali delle strutture ma sui quali torneremo in altra occasione).
Non possiamo negare che, senza alcun dubbio, la lista analitica può rappresentare un motivo di grande preoccupazione per le Aziende che affronteranno, con chiara ed intuibile difficoltà, la fase di raccolta di tutta la documentazione richiesta per dimostrare di aver adottato tutte le misure di salvaguardia utili alla prevenzione delle ICA, tuttavia potrà, altresì, considerarsi al contempo un utile vademecum per le Strutture, i risk manager e i dirigenti aziendali per riuscire a non imbarcarsi nei contenziosi più complessi e rischiosi laddove, a monte, non sussista la possibilità di dimostrare di essersi attenuti alla lista.
L’elenco può trasformarsi in un prontuario cui attenersi per cautelarsi dal rischio di contenzioso da infezioni, ma anche ed al contrario, quindi, un supporto ed un riferimento per i pazienti che vogliano promuovere azioni legali in caso siano stati danneggiati da ICA.
Avvocato malasanità Mestre Venezia | Avendo ben presente queste tematiche e le problematiche ad esse correlate, avendo avuto occasione, nel corso della pluriennale attività professionale, di trattare vari casi di ICA sia dal lato attivo del paziente che dal lato passivo della Struttura Sanitaria nell’evolversi della Giurisprudenza in materia, Trivellato & de Luigi studio legale associato avvocato Mestre Venezia è in grado di fornire adeguata assistenza legale a chi fosse interessato ad approfondire la valutazione di casi che lo vedessero coinvolto, fornendo un parere puntuale in caso di risarcimento danni responsabilità medica Mestre Venezia.
Avvocato responsabilità medica Mestre Venezia | Responsabilità sanitaria: a disposizione di tutti...ma "con giudizio"
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La responsabilità professionale in ambito sanitario per la Società Civile rappresenta un ossimoro e, se si vuole, una “sconfitta” rispetto a quello che si prefigura essere uno dei principali obiettivi cui tende la Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” (art. 32).
Se ciascun cittadino ha diritto a essere curato, è anche vero che ha diritto a essere curato “bene”.
Avvocato responsabilità medica Mestre Venezia | Questo concetto è stato dilatato dalla Dottrina e dalla Giurisprudenza così da rendere spesso non più sufficiente per il medico o per il soggetto esercente la professione sanitaria (link) dar atto di aver fatto quello che si doveva ma, invece, responsabilizzarlo a titolo di malpractice sanitaria per quanto possa accadere di negativo al paziente e sfuggito al suo controllo perché causato da un fatto “ignoto”.
Ciò ha portato alla diffusione di quella che viene definita generalmente “medicina difensiva”: piuttosto di assumersi un rischio, il sanitario preferisce prevenire, ovvero agire in prevenzione (medicina preventiva positiva), prescrivendo esami o altri indagini e terapie di per sé superflue al fine di ridurre al minimo eventuali esiti negativi o disporre, in ogni caso, di una prova documentale al fine di poter dimostrare, in un’eventuale futura azione legale avversa, di aver seguito il gold standard oppure astenendosi addirittura dal prestare la propria attività (medicina preventiva negativa) evitando così direttamente la possibilità dell’insorgere del rischio dall’inizio.
In entrambi i casi, è palese che questi atteggiamenti – per quanto umanamente comprensibili pensando allo stress e alle pressioni cui i sanitari di un Pronto Soccorso, magari spesso sottorganico, sono sottoposti quotidianamente – vadano a svantaggio proprio del soggetto che la Sanità intende tutelare, ovvero il paziente.
Di casi analoghi si occupa l’avvocato responsabilità medica studio legale Trivellato & de Luigi Mestre Venezia.
Naturalmente ci sono anche casi eclatanti in cui, come in ogni professione, il rischio di commettere errori è presente e, come in ogni professione, ci sono persone che non posseggono le qualità per essere definiti dei professionisti diligenti.
In questi casi, correttamente, la Legge “Gelli-Bianco” ora prevede (link) che - almeno in ambito civilistico e contrattuale – sia chiamato a rispondere non tanto il singolo sanitario ma, in linea generale, la Struttura Sanitaria di appartenenza. Ciò risulta corretto e garantisce al cittadino-paziente la possibilità di ottenere il riconoscimento di un giusto ed equo risarcimento e, alla professione sanitaria (in teoria), di continuare a esercitare la professione senza ricorrere a escamotage diretti ad agire avendo come primo obiettivo di sottrarsi a eventuali responsabilità piuttosto che fornire il più adeguato e corretto servizio al paziente.
In circostanze trattate da avvocato malasanità Mestre Venezia, naturalmente vi sono casi in cui la responsabilità civile contrattuale si pone in capo al singolo soggetto esercente la professione sanitaria (si pensi a tutti coloro che esercitano in regime di libera professione come, ad esempio, specialisti, chirurghi estetici, dentisti, ecc...) e, in questi casi, l’azione risarcitoria dovrà certamente essere svolta nei loro confronti.
L’esperienza professionale in materia di malpractice sanitaria accumulata nei decenni da Trivellato & de Luigi studio legale associato – avvocato responsabilità sanitaria Mestre Venezia – permette alle persone, che pensino di aver subito un danno ingiusto o la perdita di un congiunto a causa di cure sanitarie errate o incongrue, di poter usufruire di una corretta analisi della questione e ottenere un parere professionale fondato anche sulla base dell’imprescindibile collaborazione di valenti medici-legali e specialisti di cui lo Studio si avvale.
Una coscienziosa analisi permette di limitare – per quanto possibile – cause azzardate e temerarie che contribuiscono, da un lato, ad appesantire il Sistema “Sanità” e quello “Giustizia”; dall’altro può garantire vengano prese le decisioni più idonee e corrette, qualora siano fondati i presupposti previsti dalla Legge, per assicurare un giusto risarcimento a chi effettivamente risulti leso nei propri diritti alla salute o abbia subito l’ingiusta perdita di un congiunto a causa di un errore medico. Il tutto senza suscitare fallaci illusioni o esporre a spese che, alla fine, potrebbero rivelarsi una vera e propria perdita economica evitabile qualora frutto di una scelta non ponderata e fatta sull’onda dell’emozione o dell’entusiasmo basato su “facili promesse” o per l'illusione di non dover sostenere alcuna spesa.
In qualità di avvocato Mestre Venezia responsabilità medica e malasanità, Trivellato & de Luigi studio legale associato ritiene di svolgere un servizio professionale deontologicamente corretto per il cliente – una volta compiuta un’approfondita analisi di costi-benefici – sia quando accetta di rappresentarlo in un’eventuale azione risarcitoria per responsabilità sanitaria o contro il soggetto esercente la professione sanitaria privata o extra-moenia; sia quando ritiene di doverlo fermamente dissuadere dall’intraprendere eventuali azioni per presunta responsabilità sanitaria qualora queste si fondino su presupposti non supportati da un credibile parere medico-legale.
Per un Avvocato che si occupa di responsabilità medica questo risulta essere il compito più ingrato e difficile da affrontare poiché si scontra con l’aspetto umano della vicenda e indubbiamente contribuisce a fornire a una persona che già soffre (dopo aver subito una perdita o una lesione che si vive come soggettivamente “ingiusta”) quella che potrebbe essere vissuta come un’ulteriore delusione. Ma da un punto di vista professionale deve ritenersi la più corretta e, anzi, l’unica risposta da fornire al cliente.
Come Studio che si occupa di responsabilità medica Mestre Venezia, le richieste risarcitorie che effettuiamo a titolo di malpractice medica (link) sono, da decenni, il frutto di valutazioni serie e ponderate, dirette a creare i presupposti per ottenere il legittimo risarcimento del danno.
Avvocato incidente stradale Mestre Venezia | Incidente stradale causato dalla fauna selvatica
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Incidente stradale con animale selvatico | Le notizie di cronaca riportano numerosi casi di incidente stradale causato da fauna selvatica [1] con conseguenze più o meno tragiche per i conducenti e loro passeggeri.
Premessa l’adozione da parte dell’automobilista di una condotta comunque coerente con i principi dettati dal Codice della Strada, in questi casi si può individuare come soggetto responsabile del danno e quindi tenuto al relativo risarcimento da incidente stradale con fauna selvatica la Regione, inteso come Ente Territoriale titolare della competenza legislativamente demandatagli in ambito di patrimonio faunistico e, quindi, titolare delle funzioni amministrative di programmazione, coordinamento e controllo delle attività di tutela e gestione della fauna selvatica, anche nelle ipotesi in cui queste sono svolte su delega di altri Enti.
La Giurisprudenza di questi ultimi anni si è uniformata ai principi in materia sanciti dalla Suprema Corte che individua la fonte della responsabilità della Regione non più nell’art. 2043 C.C. ma nel successivo art. 2052 C.C., ovvero quella norma del codice civile che determina la generale responsabilità per il danno cagionato da animali in capo al proprietario o a chi se ne serva per il tempo in cui lo abbia in uso. E ciò sia quando l’animale in questione si trovasse in una situazione di custodia sia quando fosse smarrito o fuggito, con l’unica esimente, della prova del cosiddetto “caso fortuito”.
Tra le molte, vedasi la sentenza n° 25869 del 2023 della III Sez. Civ. della Cassazione oltre alle sentenze n° 476/2021 e n° 337/22 del Tribunale di Belluno
Incidente stradale Mestre Venezia | Chi dovesse quindi sfortunatamente aver subìto un incidente stradale con animale selvatico (e conseguente danno al veicolo o anche alla salute) come cervo, daino, cinghiale o altri ungulati, il più delle volte improvvisamente comparso sulla strada davanti all’incolpevole automobilista che pur stava viaggiando in adesione alle norme che regolano la circolazione stradale causandogli gravi e a volte tragici danni, potrà far valere le proprie pretese risarcitorie nelle competenti sedi giudiziarie nei confronti della Regione competente territorialmente di caso in caso.
Chi ha subito un danno da fauna selvatica, in qualità di attore di una controversia giudiziaria, dovrà premunirsi di costruire correttamente la domanda soddisfacendo in primis l’onere probatorio che la legge pone a suo carico poiché, anche in questi casi, non si può ovviamente dare per scontata la responsabilità della controparte posto che, diversamente, si vedrà inevitabilmente respinta la domanda da parte del Giudice.
Spetterà poi alla Regione, quale convenuto, dare a propria volta la prova del “caso fortuito”. Ma tanto più efficace sarà la prova fornita dall’attore per quel che gli compete, tanto più difficile sarà per il convenuto liberarsi dalla propria responsabilità per danno da fauna selvatica. Sarà infatti costretto a dimostrare che la condotta dell’animale selvatico fosse completamente estranea al suo potere di controllo dovendosi qualificare come condotta imprevedibile o inevitabile.
Per questo motivo è opportuno affidarsi a studi legali che abbiano dimestichezza in materia di incidente stradale con fauna selvatica e risarcimento danni incidente stradale.
Trivellato e de Luigi studio legale associato, forte dell’esperienza professionale accumulata in questi numerosi anni in materia di risarcimento del danno da circolazione stradale (link) che comprende anche la fattispecie del danno da incidente stradale Mestre Venezia con fauna selvatica, si rende disponibile a fornire un preventivo parere a coloro che dovessero ritenersi coinvolti in una simile casistica al fine di approfondire la questione e suggerire le più opportune strategie.
[1] a) https://corrieredelveneto.corriere.it/notizie/treviso/cronaca/23_ottobre_25/belluno-suv-investe-un-cervo-a-sospirolo-in-ospedale-una-bambina-6501edab-d6d7-47dc-8a01-9c1a4119axlk.shtml?refresh_ce
b) https://www.ilmessaggero.it/italia/manuel_favaro_cervo_selfie_compagna-7704791.html
Avvocato Diritto Civile Mestre Venezia
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Assistenza qualificata come avvocato civilista
Diritto civile Mestre Venezia | Trivellato & de Luigi studio legale associato ha una consolidata esperienza nelle procedure giudiziali e stragiudiziali del Diritto Civile nelle sue varie articolazioni: diritto di famiglia e della persona; diritto delle obbligazioni e dei contratti; diritto della proprietà e immobiliare; responsabilità civile, del professionista, medica e da incidente stradale.
Fin dall’inizio dell’attività dello studio nel 1965, l’avvocato Ferdinando T. Trivellato e, a seguire, i suoi soci avvocati Stefania Trivellato e Giorgio de’ Luigi hanno fatto del diritto civile il settore principale della loro attività: questa concreta esperienza, unita agli approfondimenti giuridici sulle questioni connesse anche come relatori a convegni, permette allo studio di offrire un’assistenza qualificata e puntuale in tutti i campi del Diritto Civile.
Diritto civile: avvocato civilista Mestre Venezia
L’esperienza pratica che Trivellato & de Luigi studio legale associato ha conseguito nel settore del diritto civile permette di offrire un’assistenza qualificata in relazione a tutte le varie questioni che si possono porre.
A conferma dell’interesse degli avvocati di Trivellato & de Luigi studio legale associato Mestre Venezia per la materia del Diritto Civile sottolineiamo che l’avvocato de’ Luigi è segretario della Camera Civile Veneziana.
Avvocato diritto civile: le materie seguite dallo studio legale
Trivellato & de Luigi studio legale associato segue le varie questioni che si possono porre nell’ambito del diritto civile.
Avvocato Diritto Civile Mestre Venezia per:
. diritto delle obbligazioni;
. contratti: vendita, appalto, locazioni, transazioni, mediazione immobiliare, ecc.;
. diritto di famiglia e della persona;
. diritto della proprietà e immobiliare;
. responsabilità civile e professionale:
. responsabilità medica e malasanità;
. risarcimento danni da incidente stradale (link)
I contatti dello studio legale per avvocato Diritto Civile Mestre Venezia:
Per contattare gli avvocati Ferdinando T. Trivellato, Stefania Trivellato e Giorgio de’ Luigi (link) - al fine di richiedere assistenza o una consulenza per il diritto civile - è possibile telefonare allo 041 975062 o scrivere alla mail info@tdlaw.it
Avvocato esperto in Risarcimento Danni da incidente stradale
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Assistenza qualificata per infortunistica stradale
Lo studio legale associato Trivellato & de Luigi ha una consolidata esperienza nelle procedure giudiziali e stragiudiziali relative al risarcimento dei danni da incidente stradale.
Fin dall’inizio dell’attività dello studio nel 1965, l’avvocato Ferdinando T. Trivellato e a seguire i suoi soci avv.ti Stefania Trivellato e Giorgio de’ Luigi hanno fatto dell’infortunistica stradale uno dei settori principali della loro attività: questa concreta esperienza, unita agli approfondimenti giuridici sulle questioni connesse anche come relatori a convegni, permette allo studio di offrire una assistenza qualificata e puntuale per il risarcimento danni da incidente stradale.
Risarcimento Danni da incidente stradale: un avvocato esperto
L’esperienza pratica che lo studio legale associato Trivellato & de Luigi ha conseguito nel settore del risarcimento danni da incidente stradale gli permette di ottimizzare le richieste risarcitorie da formulare, in modo che il cliente possa ottenere un risarcimento pieno.
Lo studio legale associato degli avvocati Trivellato & de Luigi opera nel campo dell’infortunistica stradale in collaborazione con professionisti esterni, spesso necessari per ottenere il risarcimento danni da incidente stradale: periti, medici legali, ecc.
Per contattare gli avv.ti Ferdinando T. Trivellato, Stefania Trivellato e Giorgio de’ Luigi e per prendere un appuntamento per una consulenza per il risarcimento danni da incidente stradale è possibile telefonare allo 041 975062 o scrivere alla mail info@tdlaw.it
Il danno risarcibile in caso di sinistro stradale
Le tipologie di danni che derivano da un incidente stradale sono di diverso tipo. Chiaramente non tutte ricorrono in ogni caso, ma è comunque importante una valutazione del caso concreto da parte dell’avvocato esperto in risarcimento Danni da incidente stradale.
Tra le tipologie di danno più frequenti possiamo ricordare:
danni al veicolo;
danni da fermo tecnico del mezzo;
danni alla persona nelle sue varie componenti patrimoniali e non patrimoniali: danno biologico; danno estetico; danno esistenziale; danno morale; ecc.;
danno da lucro cessante: mancato guadagno e impossibilità di produrre reddito;
danno dei prossimi congiunti in caso di morte della persona coinvolta nel sinistro stradale.
Ogni singola voce di danno derivante da un incidente stradale deve essere individuata, valorizzata e documentata al fine di ottimizzare il risarcimento che il cliente dell’avvocato esperto in infortunistica stradale può chiedere.
I contatti dello studio legale esperto in Risarcimento Danni da incidente stradale
Per contattare gli avv.ti Ferdinando T. Trivellato, Stefania Trivellato e Giorgio de’ Luigi, al fine di richiedere assistenza o una consulenza per il risarcimento danni da incidente stradale è possibile telefonare allo 041 975062 o scrivere alla mail info@tdlaw.it
Avvocato esperto in Risarcimento danni da Responsabilità medica e Malasanità
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Assistenza qualificata per errore sanitario
Lo studio legale associato degli avvocati Trivellato & de Luigi ha una consolidata esperienza nelle procedure giudiziali e stragiudiziali sia civili che penali relative al risarcimento dei danni da Responsabilità medica e Malasanità.
Fin dall’inizio dell’attività dello studio nel 1965, l’avvocato Ferdinando T. Trivellato e a seguire i suoi soci avv.ti Stefania Trivellato e Giorgio de’ Luigi hanno fatto del risarcimento dei danni da Responsabilità medica e Malasanità uno dei settori principali della loro attività: questa concreta esperienza, unita agli approfondimenti giuridici sulle questioni connesse anche come relatori a convegni, permette allo studio di offrire una assistenza qualificata e puntuale per il risarcimento dei danni da Responsabilità medica e Malasanità.
Responsabilità medica e Malasanità: un avvocato esperto
L’esperienza pratica che lo studio legale associato degli avvocati Trivellato & de Luigi ha conseguito nel settore del risarcimento dei danni da Responsabilità medica e Malasanità gli permette di ottimizzare le richieste risarcitorie da formulare, in modo che il cliente possa ottenere un risarcimento pieno.
Lo studio legale associato degli avvocati Trivellato & de Luigi opera nel campo della Responsabilità medica e Malasanità in collaborazione con professionisti esterni, spesso necessari per ottenere il risarcimento: periti, medici legali, medici specialisti, ecc.
Per contattare gli avv.ti Ferdinando T. Trivellato, Stefania Trivellato e Giorgio de’ Luigi e per prendere un appuntamento per una consulenza per il risarcimento dei danni da Responsabilità medica e Malasanità è possibile telefonare allo 041 975062 o scrivere alla mail info@tdlaw.it
I danni risarcibili in caso di Responsabilità medica e Malasanità
Le tipologie di danni che derivano Responsabilità medica e Malasanità sono di diverso tipo. Chiaramente non tutte ricorrono in ogni caso, ma è comunque importante una valutazione del caso concreto da parte dell’avvocato esperto in risarcimento dei danni da Responsabilità medica e Malasanità.
Tra le tipologie di danno più frequenti possiamo ricordare:
danni alla persona nelle sue varie componenti patrimoniali e non patrimoniali: danno biologico; danno estetico; danno esistenziale; danno morale; ecc.;
danno da lucro cessante: mancato guadagno e impossibilità di produrre reddito soprattutto in caso di lesioni gravi;
danno dei prossimi congiunti in caso di morte della persona a causa di una responsabilità medica o di un episodio di malasanità.
Ogni singola voce di danno derivante da un caso di Responsabilità medica e Malasanità deve essere individuata, valorizzata e documentata al fine di ottimizzare il risarcimento che il cliente dell’avvocato esperto in questa materia.
I contatti dello studio legale esperto in risarcimento dei danni da Responsabilità medica e Malasanità
Per contattare gli avv.ti Ferdinando T. Trivellato, Stefania Trivellato e Giorgio de’ Luigi, al fine di richiedere assistenza o una consulenza per il risarcimento dei danni da Responsabilità medica e Malasanità è possibile telefonare allo 041 975062 o scrivere alla mail info@tdlaw.it
Avvocato Divorzista a Mestre e Venezia
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Esperti in diritto di Famiglia
L’avvocato Giorgio de’ Luigi, socio dello studio legale associato Trivellato & de Luigi, ha maturato una rilevante esperienza in diritto di famiglia, operando quale avvocato divorzista a Mestre Venezia.
Avvocato divorzista a Mestre Venezia
L’avv. Giorgio de’ Luigi da quasi vent’anni opera come avvocato matrimonialista a Mestre e Venezia: ha assistito decine di clienti con necessità connesse al diritto di famiglia. La sua esperienza, peraltro, non è solo pratica, avendo anche partecipato, anche quale relatore, a numerosi convegni nel settore del diritto delle successioni e di famiglia.
A conferma di tale esperienza quale avvocato divorzista a Mestre Venezia, si può segnalare anche il fatto che l’avv. Giorgio de’ Luigi è anche Segretario della Sezione di Venezia dell’associazione CAMMINO - Camera Nazionale Avvocati per la persona, le relazioni familiari e i minorenni.
Per contattare l’avv. Giorgio de’ Luigi e per prendere un appuntamento per una consulenza in diritto di famiglia è possibile telefonare allo 041 975062 o scrivere alla mail giorgiodeluigi@tdlaw.it
Diritto di famiglia: il cliente al centro
Per l’avv. Giorgio de’ Luigi è di fondamentale importanza il rapporto con il cliente.
Chi si separa affronta un momento delicato della propria esistenza. Si tratta, spesso, di un vero e proprio lutto: per il cliente, spesso privo di altre esperienze in contenziosi, la separazione non rappresenta solo una pratica legale da assolvere ma, appunto, un vero e proprio lutto che impone il superamento di difficoltà e spesso la riorganizzazione della propria vita.
Per questa ragione l’avvocato divorzista e matrimonialista ha un ruolo non solo di professionista incaricato ma anche di supporto del cliente. Il cliente ha infatti bisogno:
di capire cosa accade e cosa accadrà;
quali sono i passi da compiere e quali sono le conseguenze;
quale strada bisogna intraprendere e perché;
quali sono i costi delle varie procedure.
Ma, soprattutto, il cliente ha bisogno di essere ascoltato e capito: l’avvocato divorzista deve quindi avere un rapporto di empatia con i clienti.
I contatti dello studio legale dell’avvocato divorzista di Mestre Venezia
Per contattare l’avv. Giorgio de’ Luigi, socio dello studio legale associato Trivellato & de Luigi, al fine di richiedere assistenza o una consulenza in diritto di famiglia, è possibile telefonare allo 041 975062 o scrivere alla mail giorgiodeluigi@tdlaw.it
Si può essere pagati per assistenza ad un familiare che abbia subito un danno?
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Si può essere pagati per l’assistenza fornita ad un familiare che ha subito un danno? Si. Ma da chi? E quando possiamo chiederlo?
Chi conosce il lavoro e la storia dello Studio legale sa che la nostra esperienza in ambito di responsabilità sanitaria ci vede impegnati sia in difese così dette in attivo (difese di pazienti e/o di familiari di pazienti che abbiano subito un danno in occasione di ricoveri e di attività sanitaria “subita”) sia in difese così dette in passivo (e cioè in difese di singoli sanitari o strutture sanitarie quali ospedali, case di cura, studi medici, policlinici, ospedali universitari ecc). Questa particolare esperienza nel campo della responsabilità sanitaria a tutto tondo affina sempre più una certa sensibilità sia a vedere le vicende con l’approccio di saper e poter scegliere la via giusta in un quadro di richiesta di risarcimento danni sia quella di conoscere i meccanicismi della difesa, nel medesimo ambito, quando un ospedale o una struttura sanitaria, al contrario, subiscano una richiesta di risarcimento.
Venendo al caso che ci ha coinvolto, una recente Ordinanza della Corte di Cassazione ha concluso le lunghe e travagliate vicende di un giudizio tentato dalla congiunta (figlia) di una paziente e conferma le decisioni già prese dal Tribunale e dalla Corte d’Appello di Venezia sostenendo così la bontà delle nostre difese sin dall’inizio messe in atto; tale sentenza di rigetto della domanda della figlia di una paziente, di una nota struttura ospedaliera da noi difesa, è solida e ci ha visto vincitori.
Va evidenziato che la decisione della Terza Sezione Civile della S.C. riguarda una fattispecie singolare. In sintesi la ricorrente era la figlia di una paziente già risarcita dal nosocomio per gli esiti da erroneo intervento che avevano contribuito a renderla (unitamente alle patologie cui soffriva) non più autonoma e non deambulante.
Il risarcimento dei danni della paziente era comprensivo dei costi della badante ma, l’aggravamento del quadro, aveva indotto la ricorrente/figlia a chiedere il risarcimento di pretesi danni patrimoniali e non patrimoniali per l’assistenza della madre presso la di lei abitazione in quanto bisognosa di assistenza giorno e notte per “coprire” il tempo nel quale la badante non poteva prestarsi all’assistenza della danneggiata. La figlia documentava che lasciava la propria abitazione per un certo e prolungato tempo settimanale con pregiudizio della propria “libertà”; per questa ragione la ricorrente chiedeva il pagamento di € xx all’ora per 110 ore alla settimana e per 365 giorni di ciascun anno fino a quando era deceduta la madre (cosa avvenuta parecchi anni dopo). Risultava quindi che la figlia chiedesse una certo importo annuale di svariate decine di migliaia di euro a far data dal momento di aggravamento del quadro invalidante fino al decesso. Il totale richiesto era quindi di varie centinaia di migliaia di euro ; inoltre la ricorrente chiedeva il risarcimento del non quantificato danno morale per la “perdita della libertà” (oltre alla rivalutazione dal fatto, ormai ben risalente, interessi e spese legali).
Questo era il (rilevante) valore della causa che ci ha visto protagonisti.
Le questioni a seguito delle nostre contestazioni ed eccezioni, in ordine alle tesi della controparte, avevano comportato un dibattito sulla natura ed il titolo contrattuale e/o extracontrattuale del preteso diritto al risarcimento nei confronti dell’Ente ospedaliero ritenuto responsabile dell’invalidità della madre e poi sulla trattazione della collegata questione della prescrizione (e cioè la figlia poteva ancora chiedere quel risarcimento? O il suo diritto si era prescritto?).
A tal proposito si deve tener conto che la citazione della ricorrente veniva notificata 6 anni dopo questa “necessaria” convivenza con la madre per l’assistenza. Tale prestazione di assistenza che “è stata costretta a dare la figlia con una vita che era autonoma” rispetto alla madre, era stato affermato fosse stata necessaria perché “non si sono travate mai badanti disposte a convivere giorno e notte continuativamente …” .
La madre della ricorrente era stata risarcita per il danno dall’ospedale anche per il costo del personale di badaggio necessario all’epoca della sentenza. Quindi per comprendere meglio: nella causa per responsabilità medica instaurata dalla madre la sentenza nel riconoscere il diritto ad essere risarcita aveva previsto una quota di danno per la badante che avrebbe dovuto assisterla. Quando poi le condizioni si erano aggravate la figlia affermò di aver dovuto attendere il passaggio in giudicato della sentenza della Corte d’Appello di Venezia depositata nel 2011 che statuiva, appunto, la responsabilità per inadempienza contrattuale dell’ospedale. Per tale sentenza, sempre secondo quanto affermava la controparte, in forza del contratto atipico di spedalità si afferma il carattere protettivo nei confronti dei terzi e la ricorrente-figlia intendeva avvalersi di ciò ed affermava, quindi, la durata decennale del termine di prescrizione. L’azione attorea proponeva una domanda a titolo sia extracontrattuale che contrattuale e quindi la prescrizione nel secondo caso sarebbe appunto decennale. Per questa ragione la figlia riteneva di essere in tempo con la richiesta di risarcimento.
I Giudice del Tribunale di Venezia prima e della Corte d’Appello poi hanno respinto la domanda della figlia per la prescrizione del diritto (o dell’azione, secondo la visione sostanziale o processuale).
Ergo: si può richiedere che venga attribuito un valore economico al tempo che dedichi all'assistenza del familiare ma entro un termine ben difinito (e giuridicamente "imposto").
Senza sapere ciò il nostro diritto ad un risarcimento non verrà riconosciuto.
Cerchiamo di capire. La Suprema Corte in linea con le precedenti pronunce di Tribunale e Corte d'Appello ha disatteso il ricorso per annullamento dato che la ricorrente figlia aveva la possibilità di far valere la sua pretesa risarcitoria anche prima del passaggio in giudicato della sentenza della Corte d’Appello pubblicata nel 2012, in quanto l’accoglimento della sua richiesta non era condizionato dalla preventiva affermazione di definitività della responsabilità dell’ospedale in ordine al danno (iatrogeno, cioè il danno che ha subito il peggioramento dovuto a responsabilità medica, insomma la menomazione che ne è seguita) della mamma. In altre parole se già si era verificato l’aggravamento degli esiti che sarebbero derivati da detta invalidità della mamma, che andava assistita secondo le diverse e nuove necessità (e cioè quelle che costringevano la figlia a starle accanto) , è da quel momento che decorreva la prescrizione per chiedere i danni!
Nel respingere lo specifico motivo del ricorso della nostra controparte la Cassazione ha enunciato un principio fondamentale secondo cui “è erroneo l’assunto che i congiunti del paziente danneggiato in ambito sanitario possano fruire del termine prescrizionale decennale correlato alla responsabilità contrattuale medica (cioè a quel contratto che lega il paziente alla struttura e che rende si la prescrizione decennale ma solo a beneficio del paziente); è pacifico infatti – prosegue la Suprema Corte – che la responsabilità della struttura sanitaria per i danni invocati “jure proprio” (cioè propri) dai congiunti di un paziente danneggiato “è qualificabile come extracontrattuale, dal momento che, da un lato, il rapporto contrattuale intercorre unicamente con il paziente e dall’altro i pazienti non rientrano nella categoria dei “terzi protetti dal contatto”, potendo postularsi l’efficacia protettiva verso terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l’interesse del quale tali terzi siano portatori, risulti anch’esso strettamente connesso a quello già regolato sul piano della programmazione negoziale, (Cass. n. 21404/2021) come invece avviene specificamente nel contratto concluso dalla gestante con riferimento alle prestazioni sanitarie afferenti alla procreazione (cfr. in senso conforme, Cass. n. 14615/2020, n. 14258/2020 e n. 5590/2015, non massimata)”.
Il principio fissato nella sentenza della Cassazione che ci ha visto protagonisti è molto importante.
In definitiva in ambito di responsabilità sanitaria un familiare che chieda un danno non potrà farlo secondo il principio di responsabilità contrattuale (entro 10 anni dal fatto) ma secondo un quadro di responsabilità extracontrattuale (5 anni).
Responsabilità medica - Cosa deve provare il paziente
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Quando si intenta una causa per responsabilità medica non ci si può limitare ad asserire una responsabilità di tipo sanitario. La cosa importante in caso di responsabilità medica è sapere cosa provare. Quindi come chiedere un risarcimento in tema di malpractice medica? Cosa provare oltre a fare la domanda tout court?
Domanda in caso di responsabilità medica: gli errori più comuni
Se ci si limita ad asserire la presenza di un errore diagnostico o di cura, ma senza dire in cosa esso sarebbe consistito la domanda non potrà essere accolta. Se nessuna censura viene mossa all’operato dei sanitari coinvolti né per quanto riguarda la scelta del tipo di esame eseguito (per esempio una radiografia) né per una errata esecuzione dell’esame stesso o per una errata e/o incompleta lettura del referto, od un errore nelle cure prescritte, né vengono indicati altri esami e/o accertamenti che la situazione avrebbe dovuto suggerire e che sarebbero stati colposamente omessi, o cure diverse da quelle prescritte, la domanda risulterà incompleta.
Dimostrare l'errore medico: cosa dice la Suprema Corte
Quando si chiede un risarcimento in thema di una responsabilità medica di una struttura sanitaria incombe sulla parte che ritiene di aver subito un danno, e quindi creditrice della prestazione sanitaria, allegare e provare la circostanza dell’inadempimento e dimostrare l’esistenza della cd. causalità materiale, ossia del nesso causale tra la condotta del medico e il danno subìto (posto che quest’ultimo non è immanente all’inadempimento).
Spetta invece al debitore (e cioè nel caso della responsabilità medica del sanitario coinvolto o della struttura medica) una volta che il creditore abbia assolto agli oneri sopra indicati quindi dimostrato l’errore, provare che quell’errore non è avvenuto e quindi che la prestazione (e cioè l’attività di cura) è avvenuta correttamente, ovvero nel caso contrario che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione non imputabile, secondo uno schema che la Suprema Corte, con orientamento ormai consolidato, ha definito doppio ciclo causale, ex multis, cfr. Cass. Civ. 18392/2017, Cass. Civ. 2017/26824; Cass. Civ. 29315/2017; Cass. Civ. 3704/2018; Cass. Civ. 26700/2018, Cass. Civ. 28991/2019.
Non vi è dubbio che alla luce del parametro di diligenza di cui all’art. 1176, comma II, Codice Civile nonché secondo quanto disposto dall’art. 5, comma I, L. n. 24/17 (c.d. Legge Gelli-Bianco), l’esercente la professione sanitaria, quale che sia la finalità̀ della sua prestazione (preventiva, diagnostica, terapeutica, palliativa, riabilitativa o di medicina legale), si deve attenere alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi di legge ed elaborate da estensori “validati”, ovvero in assenza, alle buone pratiche clinico assistenziali, non è ravvisabile alcuna colpa e/o responsabilità in capo al personale medico dal momento che una diversa condotta non sarebbe stata pretendibile, con il compimento di ulteriori o differenti esami diagnostici, o approfondimenti o cure. Quando, quindi, i sanitari si attengono al protocollo ed alle migliori linee guida ed hanno svolto gli accertamenti necessari previsti nessuna responsabilità potrebbe essere loro imputata.
La diligente, perita e prudente condotta dei sanitari ha rilievo oltre che ai fini dell’esclusione della responsabilità medica, anche nella determinazione del risarcimento del danno, posto che il Giudice deve tenere conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria che si conforma alle linee guida e/o alle buone pratiche clinico assistenziali (cfr. art. 7, comma III, L. 24/17 cioè sempre l legge Gelli punto nodale nella materia), proprio al fine di escludere o quantomeno contenere l’entità del risarcimento.
Inoltre il danneggiato quando chiede il risarcimento per una responsabilità medica potrà quindi anche dimostrare di non aver aggravato il danno con un concorso colposo ex art. 1227 C.C. (per l’aggravamento della patologia e/o per l’entità dei postumi).
Infine oltre a questo nel campo della responsabilità medica è sempre importante che la domanda si accompagni ad una perizia di parte.
Richiedere i danni per responsabilità medica: l'importanza della perizia medico legale
Chi ritiene di aver subito un danno in ambito di responsabilità medica è opportuno che si fornisca di una perizia medico legale di parte che, se trattasi di caso grave, sia collegiale e cioè che il medico legale incaricato, interprete indispensabile per formulare una domanda corretta e ammissibile, si accompagni ad uno specialista della materia che possa più precisamente individuare gli errori (per esempio chirurgici, di cura, diagnostici ecc).
Nelle cause di responsabilità medica una buona perizia medico legale, pur non avendo valore probatorio ma bensì di mera allegazione difensiva, consente al danneggiato e cioè a chi ha subito il danno di dimostrare in modo circostanziato quello che lui assume essere l’errore che ha cagionato il danno ingiusto.
Responsabilità medica: come arrivare alla consulenza tecnica in giudizio
Così facendo presenta al giudicante l’oggetto del giudizio (e cioè della quaestio juris) definendo anche quale sia la prova contraria che dovrà fornire la controparte (medico o struttura sanitaria che siano).
Diversamente, peraltro, se non si è potuto dimostrare correttamente quanto abbiamo illustrato potrebbe venire respinta la richiesta di C.T.U. (consulenza tecnica d'Ufficio) che, evidentemente, risulterebbe inammissibile poiché palesemente esplorativa e ciò significa che la Consulenza che potrebbe ammettere un Giudice non può valutare su fatti o dati non provati bensì su dati acquisiti.
La CTU quindi non può essere utilizzata dalla parte per colmare le lacune probatorie (quando una consulenza diventa meramente esplorativa può non essere ammessa) non potrà cioè alleggerirne l'onere probatorio.
Ammissibilità ATP 696 bis c.p.c. in presenza di consulenza penale negativa
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Sempre più spesso si deve replicare ad eccezioni di inammissibilità avverso riscorsi 696 bis c.p.c. proposti ex legge Gelli (la legge del 2017, rammentiamo, che “impone” a chiunque voglia formulare una domanda per malpractice medica di introdurre la domanda o con una domanda di mediazione ovvero, appunto, a mezzo di ricorso ex art. 696 bis c.p.c. a fine conciliativi). Ultimatamente come studio specializzato in responsabilità sanitaria abbiamo “resistito” ad una eccezione di inammissibilità basata su di una argomentazione che traeva origine da alcune recenti pronunce di Tribunali relativi all’asserita valenza della C.T. medico-legale disposta dal P.M. nel processo penale concluso con l’archiviazione e conseguente inutilità, quindi, di nuova indagine consulenziale in ATP ex art. 696 bis c.p.c..
L’inammissibilità del ricorso – secondo la controparte - si basava sull’assunto per cui “l’accertamento tecnico preventivo (…….) appare essere del tutto superfluo posto che la fattispecie è già stata indagata nell’ambito del procedimento penale. Accertamento che, seppur reso all’interno di un procedimento in cui le regole probatorie sono diverse, ben può avere rilevanza anche in questa sede, soprattutto in un caso, come quello che ci occupa, in cui viene categoricamente esclusa la responsabilità degli operatori e dei sanitariT”.
E’ come dire che dato che in sede penale la consulenza d’Ufficio medico-legale aveva escluso la colpa e la responsabilità penale, non era ammesso disporre e assumere la consulenza medico-legale in sede civile, bastando quella già effettuata.
La controparte faceva riferimento alla Sent. n° 229/2020 del Tribunale di Reggio Emilia. Orbene veniamo all’esame della pronuncia: la fattispecie trattata dal Tribunale si riferiva ad una sentenza pronunciata all’esito di un procedimento di merito in cui il Tribunale aveva compiuto le sue considerazioni e decisioni (comunque, lo rammentiamo, ipoteticamente censurabili e riformabili in grado appello) in ordine al principio del libero convincimento del giudicante e sull’ammissibilità delle cc.dd. prove atipiche, ma soprattutto tale pronuncia non aveva affatto “rigettato l’istanza di ammissione di consulenza tecnica, ritenendo esaustiva quella raccolta nel procedimento penale chiusosi con l’archiviazione”, bensì aveva sancito tutt’altro principio ovvero quello per cui una richiesta di rimessione in istruttoria e una istanza di nuova CTU non potrebbero essere accolte qualora vengano fatte valere per una asserita causa di decesso formulata più di due anni dopo l’inizio di una causa di merito e adducendo una causale completamente diversa e distinta da quella dedotta nell’atto introduttivo!
Invero poi dalla sentenza si evinceva che nel pregresso procedimento penale, conclusosi con archiviazione nei confronti dei soggetti in allora imputati di omicidio colposo, il P.M. aveva disposto una Consulenza e in tale contesto si è innestato un vero e proprio contraddittorio con i consulenti delle parti civili.
Il procuratore di controparte poi richiamava una seconda pronuncia giudiziaria, ovvero l’Ordinanza del Tribunale di Trieste del 23 dicembre 2020, resa proprio all’interno di un procedimento ex art. 696 bis c.p.c., nel quale il Giudice ha dichiarato inammissibile il ricorso affermando che ben può il giudice civile utilizzare le risultanze del procedimento penale, pur non essendone vincolato (al di fuori dei tassativi casi previsti dagli artt. 651 e 652 c.p.p.), tanto più considerando le peculiari garanzie proprie di tale ambito stabilendo, inoltre, che l’accertamento effettuato in sede panale può permettere di escludere la responsabilità anche in sede civilistica.
E’ stata nostra cura esprimere motivatamente il più fermo dissenso sulla fondatezza di questa teoria avuto specifico riguardo alla funzione attribuita al ricorso ex art. 696-bis C.P.C. siccome previsto dall’art. 8 della L. n° 24/2017 e cioè della legge Gelli sopra richiamata.
Infatti come già accennato è stabilito ex lege che l’azione civile per il risarcimento dei danni da responsabilità sanitaria debba essere preceduta dalla proposizione del ricorso ex art. 696-bis C.P.C. o, in alternativa, dalla procedura di mediazione ai sensi dell’art. 5, comma 1-bis del D.Lgs. n° 28/2010. Quindi l’impostazione sostenuta ex adverso pretende di fuorviare la funzione del procedimento di accertamento tecnico preventivo in questione.
Una volta esercitata la scelta tra A.T.P. e mediazione i requisiti di “ammissibilità” della prima attengono innanzitutto alla forma ed al contenuto degli atti introduttivi sia con riguardo alle norme generali che a quelle speciali dettate per i procedimenti di istruzione preventiva quali, ad esempio, la necessità che il ricorso contenga l’esposizione (pur sommaria) dei fatti e l’individuazione della domanda nei cui confronti la C.T.U. abbia un ruolo strumentale. Gli Altri elementi da verificare da parte del Giudice sono la legitimatio ad causam o l’integralità del contraddittorio.
Per ciò che concerne più specificatamente la questione sull’ammissibilità del ricorso per A.T.P., si sono venute a creare, successivamente all’introduzione della norma in esame, varie tesi ovvero:
- la tesi della possibilità di utilizzare l’A.T.P. solamente se vi fosse contestazione del quantum;
- quella che apre alla possibilità di utilizzare l’A.T.P. anche in presenza di contestazione sull’an, se non vi fosse stata assoluta mancanza di possibilità
- quella che riconosce al procedimento natura conciliativa, ma anche con effetti anticipativi dell’istruttoria.
Riteniamo preferibile e condivisibile quest’ultima tesi in quanto è indubbio che l’art. 8 della L. n° 24/2017 sancisce espressamente la natura “conciliativa” dell’A.T.P., ma anche anticipatoria in tanto in quanto le risultanze potranno ben fare pieno ingresso nel successivo giudizio di merito sì che viene naturale e ovvia la considerazione per cui il Giudice potrebbe compiere ulteriori valutazioni al di là di quelle relative alla sussistenza delle condizioni per l’azione e dei presupposti processuali sì da ritenere che l’accertamento tecnico richiesto non sia inutile e anzi sia idoneo ad essere utilizzato nel successivo giudizio di merito.
Ed infatti, in considerazione di ciò, la relazione del Consulente tecnico potrà essere utilizzata nel successivo giudizio come prova, mentre nel caso in cui al Consulente riesca la conciliazione, l’istituto avrà permesso la definizione anticipata della lite senza dover introdurre il giudizio di merito.
In relazione a questo pare evidente che il vaglio del Giudice adìto possa anche apprezzare la qualità delle allegazioni ma, certamente, non può spingersi ad esprimere giudizi “sommari” sull’eventuale ritenuta infondatezza della domanda o, al contrario, fondatezza delle contestazioni avverse senza con ciò elidere illegittimamente la funzione dello strumento predisposto dal Legislatore e con ciò le finalità apertamente deflattive, tanto perseguite dal legislatore e ancor più stimate dalla Giurisprudenza, specialmente nella S.C. di Cassazione. Invero tutte le questioni di questo tipo (al di fuori, quindi, dei presupposti formali di ammissibilità) troveranno giusta considerazione nell’eventuale successivo giudizio di merito nell’ipotesi in cui non si dovesse addivenire, precedentemente, alla conciliazione con il supporto dei Consulenti nominati dal Tribunale.
Pare assolutamente evidente che la citata decisione operata dal Tribunale di Trieste vada ben oltre il sindacato minimo di ammissibilità e si addentri su valutazioni di merito totalmente improprie oltre che errate, entrando “a gamba tesa” nel merito della questione e, d’un sol colpo, cancellando sia la funzionalità deflattiva che quella conciliativa di cui all’Art. 8 della L. n° 24/2017. Tale decisione è andata ben oltre alla possibilità da parte del Giudice di valutare che il ricorso richiesto fosse rilevante nonché utile ai fini dell’accoglimento della domanda di merito da introdurre successivamente, fermo che, ai fini della ammissibilità del procedimento di consulenza tecnica preventiva con finalità conciliativa, il Giudice possa comunque valutare la sussistenza di tali aspetti. Il Giudice può/deve compiere una delibazione positiva sulla ammissibilità, sulla rilevanza e sull’utilità dell’accertamento tecnico richiesto, in relazione alla successiva domanda di merito che ha intenzione di introdurre il ricorrente, sì da doverne sancire il rigettare qualora la consulenza tecnica preventiva appaia inammissibile o non rilevante o non utile con riguardo all’oggetto della domanda (risarcitoria) formulata dal danneggiato. Ma certamente non può spingersi, in questa fase, fino a dare giudizi né ad esprimere e valutare le questioni di fatto e di diritto proprie del giudizio di merito (tra le quali, ad esempio, l’inconciliabilità manifestata da controparte, la legittimatio ad causam, la sussistenza o meno di un contraddittorio integro, la rilevanza della prova, l’onere della stessa, la causalità materiale e giuridica, il tipo di responsabilità invocata oltre che alla varietà di poste di danno ipotizzabili e, anche, si è detto sull’eventuale prescrizione).
Una volta che il ricorso contenga gli elementi utili ad individuare la successiva domanda di risarcimento, l’esposizione dei fatti, il contenuto delle domande e delle eccezioni che saranno fatte valere nel giudizio di merito e che la consulenza è finalizzata a provare, il Giudice avrà la possibilità di valutare se la consulenza chiesta sia ammissibile, utile e rilevante al fine di accertare e determinare i diritti vantati dai ricorrenti.
Il caso entro cui ci siamo trovati a contestare l’eccezione di inammissibilità è ben differente rispetto a quello di cui si è occupato il Tribunale di Trieste in quanto non solo considera “la narrativa del ricorso introduttivo … generica e sibillina, con specifico riferimento al titolo giuridico dell’azione di responsabilità svolta” ma evidenzia come la relazione del medico legale … dimessa dagli stessi ricorrenti” non avrebbe costituito oggetto di rilievi o contestazioni di sorta da parte degli stessi istanti.
Ora, fermo che un Giudice, nel giudizio di merito, effettivamente, secondo risalente indirizzo possa trarre argomenti ed elementi di prova anche dalle risultanze di un pregresso procedimento penale e pur avuto riguardo alla circostanza che in quel dato procedimento penale il consulente del P.M. possa aver escluso la responsabilità penale del personale sanitario coinvolto ed altresì il nesso causale, ciò non può portare legittimamente a tacciare come “inutile” l’A.T.P. con finalità conciliativa prevista dalla legge Gelli-Bianco in materia di responsabilità civile, se non con violazione sia delle norme di cui alla L. n° 24/2017, sia di quelle in tema di nesso causale ed onere della prova vigenti in materia di responsabilità civile contrattuale sanitaria. Tale impostazione si presta, invero, a critiche che vanno oltre al fatto che il Giudice di Trieste, a fermo parere di chi scrive, è andato oltre i limiti, esprimendo un giudizio prognostico sul merito dell’eventuale successiva causa senza soffermarsi sulla possibilità che per aspetti civilistici la stessa questione non meritasse invece un approfondimento consulenziale anche al fine di favorire la conciliazione propugnata dal Legislatore.
Critiche insopprimibili affiorano sol che si pensi all’accertamento del nesso causale ed alle diverse regole sulla prova siccome applicabili in un processo penale (ovvero quella al di là di ogni ragionevole dubbio) ed in un processo civile (del più probabile che non che, notoriamente, non va ricondotto al 50% più 1). Ed anche su ciò milita una consolidata Giurisprudenza e la migliore Dottrina.
E’, quindi, evidente che l’eventuale introduzione in un giudizio civile di una consulenza o perizia che avesse condotto all’archiviazione dei soggetti indagati sulla base di criteri di accertamento della prova penalistici può ben considerarsi totalmente irrilevante al fine di un diverso accertamento su basi civilistiche. Anzi sul punto abbiamo fatto presente che solitamente, per la nostra esperienza diretta, è esattamente così.
Senza considerare la questione dell’integrità del contraddittorio posto che, come nel caso che qui ci occupa, l’archiviazione e/o il precedente iter consulenziale non hanno visto la formale partecipazione alla stesura della consulenza di un perito delle parti offese.
Se è vero che la prova acquisita in altro procedimento tra le stesse parti potrebbe essere introdotta e utilizzata è, in ogni caso, necessario che il Magistrato presti attenzione al fatto che, ad esempio, la consulenza in sede civile attraversi le varie fasi di pieno contraddittorio tra cui quello dello scambio delle osservazioni alla bozza di C.T.U. proposte dai periti di parte e delle successive risposte e repliche alle osservazioni di questi da parte del consulente dell’Ufficio. Questo offre una particolare garanzia di pienezza del contraddittorio. Ciò vale tanto più nell’A.T.P. ex art. 696 bis c.p.c. che ha una finalità ed uno scopo prettamente conciliativo introdotto con il D.I. n. 35 del 2005 proprio come nuova tipologia di accertamento tecnico (preventivo alla causa di merito) finalizzato alla composizione della lite.
Il tutto senza dimenticare il principio della responsabilità penale che è personale e che, certamente, si basa su considerazioni assolutamente diverse rispetto all’invocata responsabilità civilistica della Struttura Sanitaria.
Sempre per quel che concerne il quesito, ad esempio, il C.T.U. civile potrebbe essere chiamato a rispondere ad aspetti non proponibili in sede penale, come quello sulla perdita di chances, di cenestesi lavorativo, di guarigione o di sopravvivenza e relativa durata.
Ancora sono palesi ed evidenti le diversità della formazione della prova in sede civile ed in sede penale oltre che alla diversità dei quesiti cui deve rispondere un C.T. del P.M. a differenza del Consulente di una A.T.P. ribadiamo conciliativa!
Per queste ragioni una C.T. penale dimessa nel contesto di un procedimento 696 bis c.p.c. non è da ritenersi idonea a poter fare considerare il ricorso inammissibile ed a valutare la Consulenza Tecnica a fini conciliativi inutiliter data avuto riguardo al contenuto, alla natura e alla funzione della consulenza medico-legale richiesta dei ricorrenti.
Ne caso che specificamente ci occupava anche il Sig. Giudice ha condiviso il nostro punto di vista e la nostra analisi statuendo che l’ATP ex art. 696 bis c.p.c. fosse ammissibile.
La responsabilità omissiva sanitaria
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Ogni epoca è caratterizzata da una particolare coscienza sociale che condiziona il legislatore a regolare e risolvere aspetti di responsabilità che possono essere di volta in volta del tutto nuovi. L’epoca che viviamo, a partire circa dagli anni ’70, ha condizionato una imponente produzione normativa legata alla responsabilità sanitaria che ha determinato una casistica che a sua volta ha alimentato una produzione giurisprudenziale sempre più intensa. Nel mondo della responsabilità sanitaria il rapporto tra il medico ed il paziente è mutato grandemente.
Il mondo della medicina un tempo era impermeabile a critiche dal basso e ciò per una sorta di dovuto rispetto verso colui che tanto aveva studiato per curare e salvare le vite, ma in questo percorso sempre più si è sentita l’esigenza di tutelare il paziente da scelte fallaci e professionisti pur sempre umani che non solo non sempre riuscivano a curare ma che a volte, anzi, arrecavano danni. E proprio nell’epoca in cui si sviluppavano le grandi lotte dal basso erano maturi i tempi perché il medico smettesse di esercitare un potere di scelta insindacabile e non condiviso sul paziente.
Sempre più si sono delineati i diritti del malato (nel 1978 nasce il Tribunale del malato) e sempre più il medico viene percepito come responsabile della salute del suo paziente.
Anche una sempre crescente e maggiore coscienza dell’”utenza” del mondo sanitario ha richiesto sempre più che i medici gestissero il programma di cura in modo trasparente e responsabile. La responsabilità medica, quale paradigma della più generale responsabilità professionale, costituisce oggi il risvolto dell’attività sanitaria e si determina laddove una prescrizione sia inadeguata e produca effetti negativi sul diritto alla salute che, rammentiamolo, è un diretto costituzionalmente garantito. Codesta locuzione di responsabilità medica ingloba tutte quelle azioni che comportano, cioè, un danno alla salute psico e fisica del paziente. Questa responsabilità ha sempre costituito una tematica molto dibattuta tanto in dottrina quanto in giurisprudenza. La delicatezza della materia è tale anche perché le vicende umane in ambito sanitario determinano una moltitudine di casi tra loro molto diversi e che non permettono sempre di sviluppare principii uniformi. La materia è stata oggetto di molteplici riforme legislative e di mutevoli orientamenti giurisprudenziali. Con la legge Gelli-Bianco n. 24 del 8.03.2017, vi è stato un importante passaggio evolutivo questo è l’ultimo capitolo di una lunga storia che ha regolato il rapporto medico-paziente prescindendo da ciò che ha comportato trattare la responsabilità sanitaria quale responsabilità contrattuale o extra contrattuale. Anche questi aspetti hanno grandemente oscillato (proprio seguendo l’evoluzione dei tempi) pur tuttavia influendo solo su due aspetti tecnicamente importanti nella regolarizzazione delle controversie e cioè il tempo di prescrizione della domanda di risarcimento e il soggetto a cui spetta l’onere della prova rispetto al danno. L’argomento è assai complesso, ma a prescindere da codeste valutazioni prettamente tecniche in tema di giurisprudenza è evidente che l’esigenza (di carattere chiaramente anche sociale) era quella di rafforzare le tutele riconosciute al paziente.
Difronte ad una casistica sempre più articolata la giurisprudenza ha dovuto dare risposte a tutte le possibili vicende che determinassero un danno e così ha dovuto regolare gli spetti attraverso i quali poter verificare se in una certa attività medica fosse ravvisabile o meno una qualche responsabilità. Ed arriviamo, quindi, ad uno degli aspetti più esemplificativi di quanto la giurisprudenza oggi sia massivamente articolata nell’individuazione delle condotte colpose del medico curante. La responsabilità medica, infatti, riguarda non solo tutte le azioni che abbiano comportato un danno alla salute del paziente, ma anche le eventuali omissioni. Chi esercita un’attività sanitaria dovrà quindi rispondere dei danni derivati anche quando questi siano la conseguenza di qualcosa che non è stato fatto. Questa specifica casistica negli ultimi anni ha fornito sempre più risposte a casi in cui è mancato un apporto di carattere sanitario che ha determinato il danno. I casi omissivi si sono sempre più delineati con chiarezza ed è evidente che il loro numero è in continua crescita. Basti pensare al mancato accertamento diagnostico (per esempio il medico che non ordina esami ed approfondimenti in presenza di una certa sintomatologia) oppure alla mancata somministrazione di farmaci di vario genere (la casistica riguarda la mancata somministrazione di svariate cure per esempio antibiotiche, antitrombotiche ecc. ecc.). In tema di responsabilità medica per omissione è necessario un giudizio controfattuale per stabilire se ciò che non è stato fatto e cioè se la cura omessa, avrebbe avuto un effetto salvifico. Tale giudizio controfattuale deve essere fatto secondo un’analisi di alta probabilità logica.
Tanto premesso, non resta che esaminare più da vicino il thema della causalità giuridica, con specifico riguarda all’ambito delle responsabilità medica.
Ebbene, nel sistema della responsabilità civile, la causalità assolve ad una duplice funzione: essa per un verso attiene al momento di accertamento della responsabilità, operando come criterio di imputazione dell’evento lesivo, c.d. causalità materiale o di fatto, descrivendo cioè la relazione esistente tra la condotta dell’agente e l’evento. Per l’altro verso, invece, concerne il momento di quantificazione del danno poiché delinea l’ambito delle conseguenze pregiudizievoli risarcibili, c.d. causalità giuridica, che esprime cioè il rapporto esistente tra l’evento/inadempimento ed il danno.
La distinzione tra causalità materiale e causalità giuridica è stata più volte ribadita dalla giurisprudenza della S.C. fin dalla nota pronuncia a SS.UU. n. 581 del 2008, proprio in thema di responsabilità medica, nella quale era stato affermato che “esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell'intero danno cagionato, che costituisce l'oggetto dell'obbligazione risarcitoria”.
I due momenti si trovano tra loro in stretta connessione logico-temporale poiché l’accertamento della causalità materiale costituisce la fondamentale premessa affinché possa ravvisarsi una responsabilità e da cui occorre prendere le mosse per procedere all’indagine sulla causalità giuridica al fine di determinare i danni risarcibili, e questo perché non vi è necessaria coincidenza tra danno arrecato e danno risarcibile. Si tratta, insomma, di due giudizi distinti l’uno attinente all’an debeatur, l’altro, successivo, relativo al quantum debeatur, oggetto dell’obbligazione risarcitoria.
La norma di riferimento in thema di causalità giuridica è l’art. 1223 C.C. (a sua volta richiamata dall’art. 2056 C.C.), che prevede che sono risarcibili tutti i danni che siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento. La giurisprudenza di legittimità, con successivi interventi, ha progressivamente ampliato la portata precettiva della norma in commento, sancendo dapprima che vi rientrerebbero anche i danni immediati e diretti che rientrino nella serie delle conseguenze normali ed ordinarie dell’inadempimento medesimo in base ad un giudizio di probabile verificazione rapportato all’apprezzamento dell’uomo di media diligenza e, successivamente, sancendo che nonostante la norma faccia riferimento al solo danno patrimoniale nella sua duplice declinazione di danno emergente e lucro cessante, il medesimo schema della regolarità causale debba essere applicato anche al danno non patrimoniale.
Per altro verso manca, nel Codice Civile, una definizione legislativa di nesso causale e per questo motivo, in punto causalità materiale, vengono mutuati i principi espressi dagli artt. 40 e 41 C.P. coordinati con gli arresti della Giurisprudenza di legittimità contenuti nella nota sentenza a Sezioni Unite penali n. 30328/2002, c.d. sentenza Franzese. Tale pronuncia ha stabilito i principi fondamentali in tema di causalità, ancorché riferiti all’ambito del diritto penale. In estrema sintesi si stabilisce che non è consentito dedurre automaticamente l’esistenza del nesso causale dalla probabilità statistica di verificazione di un determinato evento in presenza di una determinata condotta; il giudice deve verificare la validità di tale correlazione statistica nel caso concreto sulla base delle circostanze di fatto e dei dati disponibili, ed accertare se, esclusa l’interferenza di fattori alternativi, la condotta (azione od omissione) sia stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica, ossia mediante un giudizio che si avvicina alla certezza, cioè a cento. Ed infine, che non può ritenersi sussistente il nesso causale in caso di ragionevole dubbio sulla reale efficacia causale della condotta rispetto ad altri fattori che hanno interagito nella produzione dell’evento lesivo.
Diversa, invece, l’elaborazione giurisprudenziale in ambito civile, ove la S.C., con orientamento ormai consolidato, ha stabilito che la regola dettata dalla sentenza Franzese si applica soltanto nel diritto penale e ai soli reati omissivi, mentre nell’illecito civile si applica il diverso criterio del più probabile che non secondo cui una condotta è causa di un evento se le probabilità che lo abbia causato sono pari almeno al 51%, introducendo così il criterio del più probabile che non o della c.d. preponderanza dell’evidenza.
La spiegazione della scelta compiuta dai giudici di legittimità è facilmente comprensibile avuto riguardo alla diversità di valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti che si contendono su piani paritetici.
Entro questo contesto si colloca l’accertamento del nesso causale nel sottosistema della responsabilità medica, la quale diviene il campo elettivo ed il banco di prova delle numerose teorie elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza in punto di causalità, specie alla luce della considerazione che essa per lo più riguarda fattispecie di tipo omissivo che rendono ancor più complesso l’accertamento della causalità. E’ l’ipotesi, ad esempio, dell’omessa o dell’errata diagnosi di una data patologia in ordine alla quale occorre verificare, ai fini della sussistenza della responsabilità del sanitario, se una tempestiva e corretta diagnosi avrebbe evitato l’evento dannoso. L’omessa diagnosi, infatti, non è da sola sufficiente a formulare un giudizio di responsabilità nei confronti del sanitario ma, individuata la sussistenza di un obbligo generico o specifico di tenere il comportamento omesso, occorre poter affermare che un’eventuale prognosi corretta avrebbe favorito un approccio terapeutico più efficace, secondo la logica del più probabile che non. L’indagine eziologica, insomma, implica un giudizio controfattuale di tipo ipotetico che si traduce nell’eliminazione mentale della condotta del responsabile: tale giudizio, nell’accertamento della causalità omissiva, è duplice in quanto occorre verificare non solo se l’evento dannoso è ricollegabile all’omissione, ma anche se la condotta omessa, ma doverosa, avrebbe evitato il verificarsi dell’evento. La rilevanza sotto il profilo causale dell’errata diagnosi non viene meno anche quando la condotta che si innesta non sia da sola idonea ad interrompere il nesso causale e costituisca un evento anomalo ed eccezionale rispetto al rischio e alla serie causale innescati dalla prima condotta.
Rammentiamo, inoltre, che l’obbligazione del professionista, quale è quella del medico, non rappresenta una obbligazione di risultato, ma una obbligazione di mezzi, pertanto l’inadempimento del professionista non può essere desunto, ipso facto, dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente.
In applicazione di detti principi la S.C., in un caso in cui alla omessa diagnosi di appendicite acuta era comunque seguita la risoluzione della patologia mediante intervento chirurgico, all'esito del quale era insorto uno stato di coma con pericolo di vita, ha affermato che, sostituendo alla omessa diagnosi la corretta rilevazione della patologia, sarebbe rimasto immutato, nella sequenza sopra indicata, il segmento causale successivo, posto che l'intervento chirurgico aveva trovato il diretto antecedente causale nella malattia non altrimenti trattabile e il successivo stato di coma aveva costituito un evento del tutto anomalo ed eccezionale, la cui genesi eziologica era stata assorbita nella efficienza deterministica esclusiva della condotta gravemente imperita dell'anestesista nel corso dell'intervento, rigettando così la richiesta di risarcimento dei danni: “In tema di responsabilità civile, la verifica del nesso causale tra condotta omissiva e fatto dannoso si sostanzia nell'accertamento della probabilità positiva o negativa del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio controfattuale, che pone al posto dell'omissione il comportamento dovuto. Tale giudizio deve essere effettuato sulla scorta del criterio del "più probabile che non", conformandosi ad uno standard di certezza probabilistica, che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pascaliana), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica o baconiana)”, Corte Cass. Sez. III., ord. n. 23197, del 27.112018.
In un altro caso di responsabilità medica, la S.C., in applicazione di detto principio, ha cassato con rinvio la decisione di merito che, in un caso di vaccinazione antipolio somministrata in epoca molto risalente nel tempo, aveva escluso la ragionevole probabilità scientifica dell’imputazione della poliomielite alla vaccinazione, in considerazione della bassa incidenza statistica, attestata dalla CTU, omettendo di valorizzare gli elementi presuntivi disponibili nel caso concreto, e con ciò accogliendo il ricorso dal paziente danneggiato (Cass. Civ. Sez. IV, n. 25119, del 24.10.2017).
Giova, infine precisare che, con riferimento alla responsabilità omissiva colposa, la causalità rileva non solo in senso naturalistico, ma anche in senso normativo, poiché a norma dell’art. 40, II° c., C.P. la condotta omissiva rileva se e nella misura in cui vi sia un obbligo giuridico di attivarsi per impedire il verificarsi dell’evento dannoso: la preventiva individuazione dell’obbligo giuridico, specifico o generico, di attivarsi in senso impeditivo, costituisce la premessa necessaria per l’apprezzamento della condotta omissiva sul piano causale.
Quanto, infine, alla ripartizione dell’onere probatorio, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare con qualsiasi mezzo il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolta tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza.
Con la conseguenza che nel caso in cui al termine dell’istruttoria non risulti provato il nesso tra condotta ed evento per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata.
Un tanto secondo quanto stabilito in una pronuncia in cui la S.C. aveva confermato la sentenza che aveva respinto per mancanza di nesso causale la domanda risarcitoria proposta dai genitori perché il figlio minore, nato prematuro, era affetto da una retinopatia all’occhio destro, in astratto e in alternativa riconducibile a tre fattori, di cui solo il terzo imputabile a responsabilità dei medici o della struttura, mentre gli altri erano preesistenti alla nascita e risultavano, ciascuno, più probabilmente che non, essere la causa della patologia (Cass. Civ. Sez. III, n. 26824 del 14.11.2017).
Sempre in applicazione dei principi di riparto degli oneri probatori, secondo cui incombe sul paziente danneggiato l’onere di provare il nesso causale tra l’aggravamento o l’insorgenza della malattia e la condotta attiva od omissiva dei sanitari, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dalla paziente e dai suoi stretti congiunti, in relazione ad un ictus cerebrale che aveva colpito la prima a seguito di un esame agiografico, sul rilievo che era mancata la prova, da parte degli attori, della riconducibilità eziologica della patologia insorta alla condotta dei sanitari, ed anzi la CTU espletata aveva evidenziato l’esistenza di diversi fattori indipendenti dalla suddetta condotta, che avevano verosimilmente favorito l’evento lesivo (Cass. Civ. Sez. III, ord. n. 26700, del 23.10.2018).
Compensatio Lucri Cum Damno
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Il brocardo latino “compensatio lucri cum damno”, in una prima e semplicistica definizione, è riassumibile come il dovere, in capo all'organo giudicante, di tener conto dell'eventuale vantaggio conseguito dal danneggiato in seguito di un illecito e, conseguentemente, ridurre proporzionatamente il risarcimento derivante dallo stesso.
Il principio summenzionato è stato di recente protagonista di un acceso dibattito tanto da parte della dottrina quanto da parte della giurisprudenza circa la sua operatività nel nostro ordinamento e – in caso di risposta affermativa – circa il suo ambito di applicazione.
Tali dubbi sono accresciuti negli ultimi decenni in quanto, in assenza di una norma ad hoc, le divergenze dottrinali sull'argomento hanno fatto vacillare un consolidato orientamento giurisprudenziale che sposava l'interpretazione poc’anzi menzionata. Le critiche mosse dagli studiosi del diritto facevano leva sulla circostanza che una ricostruzione di quel tenore risultava troppo generalizzante e, quindi, inadatta poiché obsoleta rispetto alla complessità della nostra epoca. L'attualità del problema, più nello specifico, deriva dalla recente diffusione del welfare pubblico e privato, in quanto la casistica che incrocia la responsabilità civile con i sistemi di assicurazione sociale (o privati) è in costante crescita.
Nel 2018 sono intervenute la Suprema Corte di cassazione civile e il Consiglio di Stato con una serie di pronunce (quattro per la prima, una per la seconda) al fine di fornire dei principi e criteri guida atti a risolvere definitivamente il problema relativo all’operatività della c.d. compensatio. Le innovazioni sono così riassumibili:
superamento del presupposto dello “stesso titolo” che statuiva l'operatività della compensatio solo nelle (rarissime) ipotesi in cui lucro e danno erano accomunati dallo stesso titolo o dalla stessa fonte;
facendo leva sull'art. 1223 c.c., la compensatio assurge a regola generale, facendo declassare così il cumulo a mera eccezione.
ai fini dell'operatività della compensatio sono ora necessari i seguenti presupposti:
ü nesso causale: l'illecito deve configurarsi come “circostanza occasionale e giuridicamente irrilevante” ai fini della produzione del vantaggio;
ü funzione risarcitoria del vantaggio: essa deve essere diretta e mai mediata. È necessario dunque indagare la causa dell'arricchimento da parte del danneggiato per trovare con tale beneficio un collegamento diretto con l'obbligazione risarcitoria;
ü rapporti bilaterali semplici: la compensatio opera solo quando il soggetto tenuto al risarcimento è lo stesso tenuto all'erogazione del beneficio. Se non ci fosse questa confusione il danneggiante verrebbe avvantaggiato a seguito del beneficio in capo al danneggiato da parte di un terzo. Epilogo, questo, pacificamente ingiusto.
Ad ogni modo, e nonostante i rilievi appena evidenziati, non si può disconoscere che questa rivoluzione interpretativa della compensatio abbia – almeno in parte – superato l'ormai obsoleta concezione della rigida distinzione tra risarcimento e indennizzo, sempre radicalmente separati l'uno dall'altro da un punto di vista concettuale senza realizzare, fino ad oggi, che in realtà sono entrambi accomunati dalla loro funzione: quella di riparare il danno, sia esso patrimoniale o non patrimoniale.
Purtroppo, l'enorme passo avanti fatto dalla giurisprudenza attraverso le cinque pronunce sopra sintetizzate, non è rimasto immune da critiche. In particolare, esiste ancora una parte della dottrina che manifesta il proprio dissenso circa l'operatività “a portata generale" della compensatio. Ciò perché la sua applicazione risulterebbe ingiusta nell'ipotesi di una polizza infortuni, considerando che la stessa può avere in molteplici occasioni una funzione prevalentemente previdenziale rispetto a quella indennitaria.
Un'ulteriore e importante critica si allaccia al presupposto vincolante dei rapporti bilaterali semplici.
Parte della dottrina non è stata convinta relativamente al requisito della coincidenza tra soggetto-danneggiante e soggetto tenuto a far conseguire il vantaggio. Ciò perché, sotto un aspetto squisitamente logico, un vantaggio rimane tale a prescindere da chi lo abbia “generato” e, di conseguenza, dovrebbe essere preso in considerazione nella sua oggettività prescindendo, quindi, dall'elemento soggettivo.
Tale criterio, inoltre, comporta in sé un paradosso, consistente nell'istituto della surroga. Questa, infatti, andrebbe inevitabilmente a mal conciliarsi con il vincolo dell'unicità del soggetto.
Accettare un'interpretazione restrittiva che ne escluda l’istituto, a detta della dottrina dissenziente, cambierebbe la ratiodella compensatio, che da una funzione compensativa-risarcitoria involverebbe in una meramente punitiva. L'involuzione, evidenziano i giuristi critici, si sostanzierebbe nel proiettare la questione su un piano meta-giuridico: da un punto di vista meramente giuridico, infatti, il danneggiato riceverebbe uno specifico quantum risarcitorio a prescindere dal soggetto tenuto alla compensatio. La carenza, in caso di surroga (o, più in generale, di assenza di rapporti bilaterali semplici), si sostanzierebbe solo nella decurtazione (o esenzione) dell'obbligo risarcitorio del danneggiante, che quindi si troverebbe “ingiustamente” avvantaggiato. Ma la compensatio, è opportuno precisarlo nuovamente, ha come fine ultimo quello di indennizzare il danneggiato, non di punire il danneggiante, che è solo il risvolto fisiologico del risarcimento medesimo.
Non resta che da chiedersi se esistano o no degli strumenti a carattere generale all'interno del nostro ordinamento, capaci di porre tutela in queste ipotesi. La risposta è plausibilmente affermativa.
Una prima soluzione per il terzo che abbia erogato il beneficio con funzione risarcitoria e non esistano strumenti ad hocper ripetere quanto erogato, potrebbe ravvisarsi nell'articolo 2041 c.c., corrispondente alla tutela contro l'arricchimento senza giustificato motivo. L’istituto è infatti connotato da una natura sussidiaria ed opera in tutti quei casi in cui non esista altro rimedio di carattere più specifico.
L'art. 2041 c.c., tuttavia, troverebbe difficile applicazione in una ipotesi di arricchimento c.d. “indiretto” (che è il caso di nostro interesse). Sul punto, la giurisprudenza fornisce due soluzioni tra loro contrastanti: una prima, maggioritaria, riconosce l'operatività dell'azione contro l'arricchimento senza causa per i soli vantaggi diretti o bilaterali, escludendola invece per quelli trilaterali o indiretti; l'orientamento minoritario, invece, riconosce l'applicabilità dell'art. 2041 c.c. anche per queste ultime ipotesi.
Nonostante ciò, esiste un'apertura anche sposando la ricostruzione maggioritaria dei giudici della Suprema Corte: gli ermellini hanno infatti ammesso un'eccezione al principio qualora l'arricchimento conseguito dal terzo fosse a titolo meramente gratuito.
Una seconda soluzione, poi, può individuarsi nella surrogazione legale, attraverso un'interpretazione estensiva dell'art. 1203, n.3, c.c.
Questo approccio era già stato tentato con il recupero da parte del SSN delle prestazioni sanitarie erogate a seguito di un fatto illecito altrui ex art. 2043 c.c. Ancora una volta, però, l'orientamento non è unanime: se una parte della giurisprudenza ammette l'operatività del 1203 c.c., un'altra non lo ritiene operativo.
La disputa deriva dal tenore letterale dell'art. 1203 c.c., il quale richiede, per la sua applicabilità, di “essere tenuto con altri o per altri al pagamento del debito” e avere “interesse di soddisfarlo”. La prima locuzione riportata, esclude in re ipsa i casi di pagamento spontaneo. Sempre lo stesso periodo chiarisce che l'obbligo di pagamento non è proprio del solvens, che comunque deriva da un interesse giuridicamente qualificato. E se esiste tale interesse, non v'è di certo la spontaneità del pagamento: ergo, può rendersi possibile la surrogazione legale anche per le ipotesi su cui si sta discutendo.
La responsabilità genitoriale per fatti illeciti commessi da figli conviventi
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Responsabilità dei genitori derivante dalle condotte illecite dei figli.
La responsabilità dei genitori derivanti da condotte illecite poste in essere dai figli trova la sua origine normativa – con tutte le sue diversità ed i suoi limiti – nel diritto romano arcaico, più precisamente nelle actiones noxales.
La disciplina in esame, nel diritto attuale, è oggi disciplinata dall’art. 2048 c.c. “Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d’arte”.
La norma, anche a seguito di un consolidato orientamento giurisprudenziale, è configurata come una ipotesi di responsabilità diretta dei genitori per il fatto illecito commesso dai figli minori.
Secondo la giurisprudenza maggioritaria, infatti, la responsabilità è diretta poiché questa trova applicazione solo qualora il genitore abbia violato – anche solo presuntivamente - uno dei doveri di cui all’art. 147 c.c. e, a seguito di siffatta violazione, la condotta del minore ha conseguito l’evento giuridicamente rilevante (Cass. n. 20322 del 20.10.2005; Cass. n. 9815 del 09.10.1997; Cass. n. 4481 del 28.03.2001).
L’operatività del 2048 c.c. presuppone l’integrazione dei presupposti di cui all’art. 2043 c.c..
È necessario, quindi, che il fatto illecito del minore sia connotato dal dolo o dalla colpa e che l’evento dannoso sia eziologicamente connesso alla condotta contra legem.
Esistono, tuttavia, ipotesi in cui l’elemento soggettivo non è richiesto ai fini della determinazione della responsabilità ex 2048 c.c.. Ad esempio sono sorti dubbi applicativi dell’art. 2048 rapportato con l’art. 2054 c.c. nell’ipotesi in cui il minore commetta il fatto illecito a seguito di una conduzione di un veicolo che legalmente non potrebbe condurre.
La giurisprudenza ha dissipato tale questione statuendo che i genitori, in tali casi, risponderanno comunque ex art. 2048 c.c., anche qualora la loro responsabilità non sia stata accertata in concreto (Cass. n. 6686 del 09.07.1998).
L’art. 2048 c.c. recita, al primo comma, parte prima, che “Il padre e la madre, o il tutore sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi”.
Si ritiene pacificamente che la norma in parola abbia carattere tassativo e, di conseguenza, non ammetta analogie. Per estendere i soggetti responsabili, dunque, la L. 184/1983, all’art. 27, attribuisce la medesima responsabilità di cui all’art. 2048 c.c. anche ai genitori adottivi, nonché a quelli naturali e riconosciuti.
Il problema circa l’applicazione della responsabilità sorge allora, per esclusione, relativamente all’ipotesi del genitore naturale che non abbia riconosciuto il minore.
In assenza di un orientamento giurisprudenziale unanime e di una norma ad hoc, la dottrina maggioritaria ha ritenuto, facendo leva sull’art. 250 c.c., che tali soggetti siano esenti da responsabilità.
Resta invece ancora incerta la responsabilità del genitore separato o divorziato non affidatario.
Sull’argomento dottrina e giurisprudenza si sono scisse in un trittico di orientamenti:
1) Una prima ipotesi tende a riconoscere piena responsabilità ex art. 2048 c.c. La ratio di questa ricostruzione si incardina sul dettato di cui all’art. 317 c.c. Al genitore, anche non affidatario, restano una serie di doveri di vigilanza e controllo che comportano in re ipsa una responsabilità (orientamento ben risalente. Vedi Cass. 3491 del 11.07.1978).
2) Una seconda ipotesi, diametralmente opposta a quella indicato al punto 1, esclude totalmente la responsabilità del genitore non affidatario mancando la coabitazione con il figlio minore. (Questo orientamento è stato regolato e confermato anche molto recentemente dalla Suprema Corte. Vedi Cass. n. 11198 del 24.04.2019).
3) Una tesi che bilancia i rilievi di entrambi suggerisce di riconoscere al genitore non affidatario la responsabilità limitatamente al periodo in cui effettivamente può esercitare nei suoi confronti i poteri e doveri di cui all’art. 317 c.c. (Indirizzo temporalmente a metà tra le due ipotesi precedenti. Vedi Cass. n. 7050 del 14.03.2008).
Ciò detto, è opportuno precisare altresì che l’art. 2048 c.c. viene temperato dall’art. 2047 c.c., che opererà in luogo del 2048 c.c. tutte le volte in cui il minore non emancipato che abbia commesso un illecito sia un soggetto incapace. La giurisprudenza ha infatti pacificamente chiarito l’alternatività delle due norme, con la conseguente non cumulabilità delle stesse (v. Cass. n. 5122 del 04.10.1979; App. Bologna 09.02.2015; Trib. Cassino 18.09.2018).
L’alternatività di cui sopra non si estende anche all’ipotesi in cui il fatto commesso dal minore (capace) avvenga in un momento in cui lo stesso sia stato affidato ad una persona terza rispetto ai genitori, ma comunque qualificata alla sua vigilanza.
In tali ipotesi, la giurisprudenza “assolve” il genitore solo dalla presunzione di culpa in vigilando, preservando invece nei suoi confronti la responsabilità derivante da culpa in educando (Trib. Monza 12.06.2006 e Cass. n. 12501 del 21.09.2000).
Il genitore sarà quindi tenuto a dimostrare di aver adempiuto ai propri oneri educativi nei confronti del minore relativamente al suo sviluppo psico-emotivo nonché al controllo dei propri impulsi (Cass. 18804 del 28.08.2009).
Il genitore allora, per liberarsi da questa presunzione di responsabilità, dovrà provare o l’incapacità del figlio minore o l’impossibilità di aver impedito il fatto illecito nonostante lo sia stato educato in maniera consona alle proprie condizioni sociali e famigliari (Cass. n. 4481 del 28.03.2001 e da ultimo la recentissima sentenza n. 22541 del 10.09.2019 della Suprema Corte)
Alla luce di quanto finora esposto, si evidenziano due tipo di responsabilità: quella del minore, ex 2043 c.c. e quella del genitore ex 2048 c.c. nei limiti e nelle forme ut supra.
Dal punto di vista risarcitorio, le due responsabilità configurano tra loro un’ipotesi di responsabilità solidale ex art. 2055 c.c.
Sotto un profilo processuale, ciò implica un litisconsorzio facoltativo, incardinato su un unico fatto (la condotta illecita del minore), ma composto da due differenti titoli del rapporto giuridico e della causa petendi.
Detto in altri termini, si instaura una riunione di cause connotate di totale autonomia l’una dall’altra in sede di impugnazione (Cass. n. 1512 del 28.02.1983).
Nonostante il genitore sia de jure co-responsabile e solidalmente tenuto assieme al proprio figlio minore (e capace) a risarcire il danno, avrà comunque diritto di regresso nei confronti di quest’ultimo.
Infine, qualora l’illecito commesso dal minore capace consista in una violazione amministrativa, opera la L. 689/1981 che, all’art. 2, in perfetta aderenza con quanto si è già detto circa l’illecito di natura civilistica, attribuisce la responsabilità del fatto da lui commesso al soggetto tenuto al controllo e alla vigilanza, salvo dimostrazione dell’impossibilità a impedirne il fatto medesimo.
L'azione di rivalsa della Struttura Sanitaria, tra Legge Gelli e oscillazioni giurisprudenziali
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alcune considerazioni sull' azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa della struttura sanitaria nei confronti dell' esercente la professione sanitaria
Con la L. n. 24 del 08.03.2017, c.d. Legge Gelli, il legislatore ha ridefinito i principi generali in materia responsabilità medica, disciplinando, tra laltro, allart. 9, l'azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa della struttura sanitaria nei confronti dell'esercente la professione sanitaria.
Da una prima lettura della norma si evince lintenzione del legislatore di dettare una disciplina di favore nei confronti dell'esercente la professione sanitaria, ed infatti sono stati previsti una serie di limiti, temporali e quantitativi, per lesercizio dellazione di rivalsa. Tale scelta si pone nel solco della ratio legis della novella che è volta a tutelare il singolo operatore nell'esercizio della propria professione, scongiurando il timore di dover subire azioni non solo da parte dei pazienti o dei loro parenti, ma anche da parte delle strutture presso le quali lavora. Tutto questo nell'intenzione del legislatore dovrebbe avere effetti benefici non solo in termini economici, mediante la riduzione della medicina difensiva, ma anche nei rapporti tra paziente e operatore sanitario nel nome di quell'alleanza terapeutica che pareva essere ormai perduta.
Il primo comma dellart. 9 stabilisce che: l'azione di rivalsa nei confronti dell'esercente la professione sanitaria può essere esercitata solo in caso di dolo o di colpa grave, limite che vale tanto per l'azienda (pubblica o privata) che agisca in rivalsa, quanto per l'assicuratore che, pagato il danno, si sia surrogato ex art. 1916, comma 1, C.C.
Se per il concetto di dolo non paiono porsi particolari questioni ermeneutiche, più delicato è il concetto di colpa grave. Per definire tale paradigma normativo si può, allora, fare riferimento all'elaborazione giurisprudenziale delle Corti amministrative in thema di azione di rivalsa e responsabilità amministrativa, e così: "non ogni condotta diversa da quella doverosa implica colpa grave, ma solo quella che sia caratterizzata da particolare negligenza, imprudenza od imperizia e che sia posta in essere senza l'osservanza, nel caso concreto, di un livello minimo di diligenza, prudenza o perizia livello minimo che dipende dal tipo di attività concretamente richiesto all'agente e dalla sua particolare preparazione professionale e ancora, sussiste la colpa grave: quando il medico ometta di compiere un'attività diagnostica e terapeutica routinaria, atta a scongiurare determinate complicazioni" (cfr.: Corte dei Conti Sicilia, n. 1015 del 28.03.2015). Insomma la colpa grave deve intendersi come: "sprezzante trascuratezza, straordinaria ed inescusabile negligenza o imprudenza , grossolana superficialità, particolare noncuranza".
Secondo quanto disposto dalla novella legislativa, dunque, in tanto potrà esserci azione di rivalsa in quanto sia accertato il dolo o la colpa grave dell'esercente la professione sanitaria, mentre nell'ipotesi di danno provocato da colpa lieve o lievissima la Pubblica Amministrazione non potrà esercitare alcuna azione. Il che evidentemente se non avrà particolare ripercussioni nel settore pubblico (ove tale ipotesi era già prevista ex art. 22 DPR 10.01.1957, n. 3), maggiori conseguenze comporterà in ambito privato, laddove fino all'entrata in vigore della novella non vi erano mai stati limiti (né di dolo né di colpa grave) all'esercizio delle rivalsa che veniva, quindi, esercitata liberamente e per lintero.
In tale quadro ben potrebbe verificarsi una ulteriore possibilità, e cioè l'azione di surroga intrapresa dall'assicuratore di responsabilità civile, che ha pagato il danneggiato, nei confronti dell'esercente la professione sanitaria responsabile del danno, il quale si troverebbe così esposto all'azione di regresso da parte del coobbligato che abbia risarcito il danno e allazione di surrogazione da parte dellassicuratore della responsabilità civile di uno dei corresponsabili che abbia risarcito il danneggiato.
Ad ogni modo, pare evidente che con l'entrata in vigore dellart. 9, comma 1, L. Gelli, le strutture sanitarie e i loro assicuratori troveranno un ostacolo molto forte alle azioni di rivalsa che decideranno di promuovere nei confronti degli operatori sanitari che lavorano al loro interno, in quanto avranno l'onere di fornire la prova, oltre che del dolo, della colpa grave degli esercenti la professione sanitaria.
Il secondo comma della norma in commento, introduce il c.d. "doppio binario" per l'azione di rivalsa, nonché un termine di decadenza di un anno per lesercizio dell'azione stessa, nel caso in cui l'operatore sanitario non sia stato parte del procedimento o della trattativa stragiudiziale: se l'esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio o della procedura stragiudiziale di risarcimento del danno, l'azione di rivalsa nei confronti di quest'ultimo può essere esercitata soltanto successivamente al risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale ed è esercitata, a pena di decadenza, entro un anno dall'avvento pagamento.
Il legislatore ha, dunque, introdotto due tipologie di azioni rimesse alla discrezionalità della vittima dell'errore sanitario, la quale potrà decidere di procedere in via esclusiva o contro la struttura sanitaria ed il suo assicuratore (soluzione propugnata dal legislatore) o cumulativamente contro lazienda (ed il suo assicuratore) ed il sanitario. Nel caso il paziente danneggiato opti per la prima ipotesi, l'azione di rivalsa esperibile dall'azienda nei confronti del medico responsabile avrà un limite temporale dilatorio perché non potrà essere intentata (a pena di dichiarazione di improcedibilità), se non dopo che sia stato definito il risarcimento alla vittima, tanto in sede giudiziale (sulla base di un titolo definitivo? N.d.R.), quanto stragiudiziale (e cioè con accordo transattivo eseguito dalla struttura o dal suo assicuratore); nonché perentorio in quanto l'azione potrà essere esercitata, a pena di decadenza insanabile, entro un anno dall'avvenuto pagamento.
La ratio della norma è chiaramente quella di prevedere l'azione di rivalsa contro il sanitario come successiva rispetto al risarcimento del danno al paziente da parte dellazienda (e/o del suo assicuratore).
Vero è che nel caso in cui il paziente decida di svolgere la propria azione anche nei confronti dell'operatore sanitario, nulla vieta alla struttura sanitaria (privata) e al suo assicuratore, di svolgere lazione di rivalsa all'interno del medesimo giudizio civile, senza dover aspettare alcun avvenuto pagamento.
A tal proposito è, infatti, pacifico l'orientamento giurisprudenziale della S.C. secondo cui: "l'assicuratore, convenuto in giudizio dall'assicurato per il pagamento dell'indennità assicurativa, in virtù del principio di economia processuale, può agire nella medesima sede a tutela del proprio diritto di surrogazione, anche in difetto del previo pagamento di detta indennità, chiamando in causa il terzo responsabile del danno al fine di ottenere, nei confronti di questo, una sentenza condizionale di condanna alla rivalsa di quanto sarà condannato a pagare all'assicurato a titolo di indennità, potendo egli offrire la prova dell'avvenuto pagamento della medesima in un momento successivo alla pronunzia della sentenza di condanna in favore dell'assicurato e di quella condizionale a suo favore" (cfr.: Cass. Civ. Sez. III, 19.07.2004, n. 13342). L'avvenuto pagamento dell'indennità non è dunque condizione per l'esercizio dellazione di accertamento dell'obbligo risarcitorio del terzo chiamato, ma solo della successiva ed eventuale azione esecutiva.
Anche i commi terzo, quarto e settimo, prevedono delle disposizioni a favore del sanitario.
In particolare il terzo comma stabilisce che non fa stato nei confronti dell'esercente la professione sanitaria la sentenza di condanna della struttura e della sua impresa di assicurazione arrivata al termine di un giudizio al quale lo stesso non ha preso parte, né (quarto comma), è opponibile all'operatore sanitario la transazione intervenuta tra la struttura e la sua impresa di assicurazione con il paziente. Al contrario (settimo comma), se l'esercente la professione sanitaria è stato parte del procedimento principale, nel giudizio di rivalsa e in quello di responsabilità amministrativa: "il giudice può desumere argomenti di prova dalle prove assunte nel giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria o dell'impresa di assicurazione".
Mentre le disposizioni del terzo e quarto comma non si prestano a critiche e paiono del tutto condivisibili, è la disposizione del settimo comma a destare alcune perplessità. A ben vedere il principio ivi espresso, appare superfluo se sol si considera che ribadisce un concetto già pacifico (desumere argomenti di prova in un secondo giudizio al quale partecipano tutti i soggetti coinvolti nel primo) e già ripetutamente affermato dalla giurisprudenza della Corte dei Conti; ma anche perché nell'ipotesi in cui il paziente danneggiato ritenga di agire nei confronti dell'azienda e del suo assicuratore, nonché dell'esercente la professione sanitaria, con ogni probabilità non ci sarà un secondo giudizio in quanto l'azione di rivalsa ben potrà essere esercitata contestualmente e cumulativamente nel medesimo giudizio intentato dal danneggiato.
Vale, inoltre, la pena di osservare che gli effetti di tale ipotesi di giudizio, celebrato nel contraddittorio contestuale di tutte le parti, si riverbereranno inevitabilmente sul piano istruttorio in quanto la consulenza tecnica medico legale disposta non solo avrà delle conclusioni opponibili a tutti ma, avendo natura complessa, dovrà effettuare tutti gli accertamenti del caso con indagine volta ad individuare i contributi causali dei singoli medici intervenuti a vario titolo nella vicenda sanitaria, sussistenza o meno di un determinato grado di colpa, ecc ._ Mentre nel caso di giudizio che vedesse coinvolti solamente danneggiato, struttura ed il suo assicuratore, la consulenza potrebbe limitarsi ad accertare la sussistenza o meno di un inadempimento degli ausiliari della struttura, senza effettuare alcun ulteriore approfondimento, quale, per esempio il diverso apporto causale dei singoli operatori.
Merita, infine, evidenziare che poiché l'esercente la professione sanitaria potrebbe non avere contezza dell'avvio di un procedimento per l'accertamento di una sua responsabilità, la novella, al fine di garantire il loro diritto di difesa rispetto alle pretese dei pazienti, ha introdotto (cfr. art. 13) uno specifico obbligo per le strutture sanitarie e le imprese di assicurazione di comunicare agli esercenti la professione sanitaria l'instaurazione del giudizio basato sulla loro responsabilità. Tale comunicazione va fatta entro un termine ben preciso che, originariamente fissato in dieci giorni, è stato successivamente elevato a sessanta, allo scopo di consentire l'esecuzione di tutti i necessari accertamenti su quali siano i medici effettivamente coinvolti nella vicenda portata all'attenzione dei giudici. Tale obbligo di comunicazione va adempiuto mediante posta elettronica certificata o raccomanda con avviso di ricevimento che deve contenere una copia dell'atto introduttivo del giudizio. A sottolineare l'importanza della comunicazione vi è la circostanza che se la stessa è omessa, inviata tardivamente o incompleta, le azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa non sono ammissibili.
I commi quinto e sesto introducono dei limiti quantitativi all'azione di responsabilità amministrativa della struttura pubblica e di rivalsa dell'azienda privata che si possono schematicamente riassumere nei termini che seguono, riprendendo anche le considerazioni finora svolte.
Nell'ipotesi di azione di rivalsa, rectius, di responsabilità amministrativa per danno erariale esercitata dalla struttura pubblica nei confronti dell'esercente la professione sanitaria, in caso di dolo o colpa grave, a dare l'impulso al procedimento sarà il Pubblico Ministero presso la Corte dei Conti, cui è attribuita giurisdizione esclusiva, posto che la giurisdizione contabile non si riferisce ai soli fatti inerenti al maneggio di denaro, ma si estende ad ogni ipotesi di responsabilità per pregiudizi economici arrecati allo Stato.
L'azione, oltre al già richiamato (cfr, comma 2) limite temporale decadenziale di un anno dall'avvenuto pagamento del risarcimento del danno in favore del paziente, incontra ulteriori limiti quantitativi introdotti dal comma quinto. Essi derivano in primo luogo dal potere di riduzione della Corte dei Conti la quale, chiamata a valutare le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto (secondo i noti principi di cui al R.D. n° 1214/1934, e di cui alla L.n° 20/1994, che la novella richiama espressamente, fermo quanto previsto dallart. 1, comma 1-bis della legge 14 gennaio 1994 n° 20, e dallart. 52, secondo comma, del testo unico regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214). In secondo luogo la Corte dei Conti dovrà tenere contro della situazione di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura sanitaria o socio sanitaria pubblica in cui si è trovato ad operare il sanitario. In terzo luogo, in ipotesi di colpa grave, la condanna non potrà in ogni caso superare il triplo della maggiore retribuzione lorda annua, o del corrispettivo convenzionale, dell'esercente la professione sanitaria tra quella percepita nell'anno dell'illecito e quella immediatamente precedente o successiva. Sul punto è stato osservato da parte della Dottrina che uninterpretazione letterale della norma porterebbe a delle cifre assolutamente irrealistiche che, di fatto, renderebbero inutile la previsione del limite stesso. La norma parla, infatti, di retribuzione lorda annua moltiplicata per il triplo. Stando quindi alla lettera della norma, se la retribuzione annua lorda dell'operatore sanitario fosse pari a € 50.000, il limite quantitativo non sarebbe 50.000 x 3 = 150.000 , ma 50.000 x 150.000 (50.000 x 3) = 7.500.000.000 (!?). In pratica la norma non avrebbe alcun senso, è evidente dunque che si è trattato di un errore materiale.
Anche l'assicuratore della struttura pubblica che abbia risarcito il danno potrà agire in rivalsa, surrogandosi ex art. 1916 C.C. nei confronti dell'esercente la professione sanitaria, rispettando, tuttavia, lo stesso limite temporale di un anno dall'avvenuto pagamento sulla base del titolo giudiziale o stragiudiziale, anche se, come detto, potrebbe agire immediatamente in rivalsa nell'ambito dello stesso giudizio risarcitorio promosso dal danneggiato, a condizione che ne sia parte l'esercente la professione sanitaria, ed incontrando lo stesso limite quantitativo del triplo del reddito lordo massimo, interpretato nei termini anzidetti.
Solo nell'ipotesi di azione esercitata nei confronti dei dipendenti pubblici, la norma prevede, quale pena accessoria, in caso di passaggio in giudicato della decisione di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato, che l'esercente la professione sanitaria per i tre anni successivi non potrà essere preposto ad incarichi professionali superiori rispetto a quelli ricoperti. Il giudicato costituirà, inoltre, oggetto di una valutazione specifica dei commissari nei concorsi pubblici per incarichi superiori.
La seconda ipotesi (comma 6) è quella che prevede i limiti quantitativi nel caso di azione di rivalsa esercitata dalla struttura privata (o dalla sua impresa di assicurazione). Come detto, in caso di dolo o colpa grave la struttura potrà proporre la domanda già all'interno del procedimento promosso dal danneggiato, purché nel contraddittorio dell'esercente la professione sanitaria, oppure, in caso contrario, entro un anno a pena di decadenza, dall'avvenuto pagamento del risarcimento in favore del terzo, sulla scorta del titolo giudiziale o stragiudiziale.
Anche in questa ipotesi di rivalsa (o surroga dell'assicuratore) opererà lo stesso limite quantitativo del triplo del reddito professionale lordo più elevato, interpretato nei termini anzidetti.
L'ultimo periodo del comma sei prevede una terza ipotesi, e cioè quella dell'azione di rivalsa esercitata dalla struttura privata (o dalla sua impresa di assicurazione ex art. 1916 C.C.), nei confronti del medico libero professionista non dipendente, in regime libero-professionale (cfr. art. 10, c. 2, L. Gelli). Anche in tale ipotesi l'azione potrà essere esperita solo in caso di dolo o colpa grave e, come di consueto, proponendo la domanda già all'interno del procedimento promosso dal danneggiato, laddove fosse stato evocato in giudizio anche il professionista; oppure, in caso contrario, entro un anno, a pena di decadenza, dall'avvento pagamento del risarcimento in favore del terzo, sulla scorta di un titolo giudiziale o stragiudiziale. Tuttavia, a differenza delle due precedenti ipotesi, tale azione non ha alcun limite quantitativo ed, infatti, la struttura può agire per recuperare l'intero importo pagato a titolo risarcitorio, in quanto: "il limite alla misura della rivalsa, di cui al periodo precedente, non si applica nei confronti degli esercenti la professione sanitaria di cui allarticolo 10, comma 2" e cioè appunto i medici liberi professionisti non dipendenti, in regime libero-professionale.
Se quella fin qui delineata è la disciplina dettata dal legislatore con la c.d. Legge Gelli, in thema di rivalsa e/o di responsabilità amministrativa della struttura sanitaria, molto più incerto è il regime dell'azione stessa con riferimento a tutte le ipotesi verificatesi prima della sua entrata in vigore (il 1° aprile 2017). Invero la legge non regola gli effetti di natura transitoria e, dunque, nel silenzio del legislatore ed ai sensi dell'art. 11 delle Preleggi, non dovrebbe soffrire di eccezioni al principio di irretroattività.
In assenza di precisi riferimenti normativi e di risposte assolutamente contrastanti delle Corti di merito, a tentare di fare chiarezza è stata la terza Sezione civile della Corte di Cassazione che, con la sentenza n° 28987 del 11.11.2019, una delle cc.dd. sentenze di "San Martino bis", ha tentato di dare una risposta definitiva all'irrisolta questione, pur non potendo non considerare la novella quale: "indice ermeneutico d'indirizzo a supporto" .
Il caso sottoposto allesame della S.C. è quello relativo ad un giudizio di risarcimento del danno promosso da una donna che, tra il 1999 ed il 2004, si era sottoposta ad un triplice intervento chirurgico di mastoplastica al seno erroneamente eseguito e non rimediato dalle operazioni successive alla prima. L'azione di danno veniva rivolta nei confronti del medico operante e della casa di cura privata. Il giudice di primo grado, in accoglimento delle domande proposte, condannava in solido i convenuti al risarcimento del danno e la Corte territoriale confermava la pronuncia impugnata sulla base dell'automatica estensione, ex art. 1228 C.C., della responsabilità del medico alla struttura che se ne avvale per l'espletamento della prestazione sanitaria, e non ammettendo alcuna differente graduazione delle colpe tra chi aveva male eseguito gli interventi e chi, la struttura, avrebbe dovuto assicurarne, anche in forza del contratto di spedalità, lesecuzione ad opera di professionista idoneo; la Corte, di conseguenza, negava alla struttura sanitaria, che aveva corrisposto il risarcimento, la possibilità di recuperare presso il medico lintero ammontare versato.
Avverso tale pronuncia la struttura sanitaria proponeva ricorso per Cassazione, nel quale contestava come il giudice a quo avesse mancato di rilevare che: "poiché non era stata addebitata alcuna censurabile condotta causativa alla struttura, non poteva porsi tale posizione sullo stesso piano di quella, colposa ed eziologica, del chirurgo, sicché avrebbe dovuto affermarsi, ai fini interni del regresso, lesclusiva responsabilità del medico".
Ebbene, premesso che il problema della rivalsa e del diverso atteggiarsi dei rapporti interni tra struttura sanitaria e medico, talora non pare neppure percepita in dottrina come in giurisprudenza, merito della sentenza in commento è quello di aver preso le mosse disvelando l'equivoco di fondo talora presente nella ricostruzione dell'istituto. L'idea per cui la struttura sanitaria avrebbe integrale rivalsa verso l'ausiliario di cui si avvale, si radica, per la S.C., nella sovrapposizione tra fattispecie di responsabilità che, invece, dovrebbero essere tenute distinte e, cioè, quelle ex art. 2049 C.C.(responsabilità dei padroni e committenti) che contempla un'ipotesi di responsabilità indiretta per fatto altrui, ed ex art. 1228 C.C. (responsabilità per il fatto degli ausiliari), che contempla un'ipotesi di responsabilità diretta per fatto proprio. In particolare, sarebbe l'erroneo inquadramento della responsabilità della struttura nella cornice dell'art. 2049 C.C. e non in quella dell'art. 1228 C.C. a rendere ragione della condanna a rivalse per l'intero verso l'ausiliario. Soluzione dalla quale, tuttavia, la S.C. rifugge.
Motiva la S.C. che nella fattispecie ex art. 2049 C.C. il padrone ed il commesso rispondono per titoli distinti, ma uno solo è l'autore del danno; la responsabilità solidale che grava sul danneggiante ed il proprio dominus si fonda sulla scelta normativa di gravare quest'ultimo del fatto altrui, in estensione della tutela del terzo e, quindi, in una logica di garanzia. Si è qui nell'ambito dell'illecito e a detta responsabilità, per scelta legislativa, si affianca quella del preponente quando il fatto illecito di base si riconnette alle incombenze delegate. Il danneggiato ha, quindi, senz'altro azione risarcitoria nei riguardi di entrambi, ritenuti solidalmente responsabili e, se a pagare è il dominus, egli può recuperare integralmente l'esborso presso il preposto.
Ma, prosegue la Corte, nel caso di cui all'art. 1228 C.C. le cose si atteggiano diversamente. La responsabilità di chi ha volontariamente incaricato l'ausiliario e organizzato attraverso questo incarico l'esecuzione della propria obbligazione per i fini negoziali perseguiti, è per fatto proprio e non altrui. La relazione che si instaura tra l'azienda e il danneggiato preesiste alla condotta dannosa da inadempimento ed il coinvolgimento dell'ausiliario è esattamente funzionale alladempimento di detta, prodromica, obbligazione. Se ciò è vero, allora, conclude la Corte, non si capisce perché si dovrebbe accordare alla azienda (debitore) il diritto di essere tenuta integralmente indenne per avere risarcito un danno da inadempimento di un'obbligazione propria e volontariamente delegata in fase esecutiva ad un ausiliario.
Sulla base di tali premesse, la Corte individua tre differenti soluzioni al fine di identificare i limiti quantitativi dellazione di rivalsa.
- Danno da malpractice addebitato alla sola struttura senza diritto di rivalsa nei confronti del medico, a fronte di una condotta dell'ausiliario inserita, senza deviazioni, nel percorso attuativo dell'obbligazione assunta dalla casa di cura con il paziente, collocandosi quindi nel'larea del rischio dell'impresa sanitaria; questa opzione però, osserva la Corte, contrasta con la legge Gelli che, come visto, disciplina in modo esplicito allart. 9, la rivalsa della struttura nei confronti del sanitario responsabile.
- Danno da malpractice addebitato in sede di rivalsa al solo sanitario nel caso di colpa esclusiva di questultimo nella produzione dell'evento di danno; anche tale soluzione tuttavia, è esclusa dalla riforma del 2017, che osserva la Corte: non prevede effetti retroattivi con diritto di rivalsa integrale per l'intero importo risarcitorio.
- Danno da malpractice ripartito tra struttura e sanitario, anche in ipotesi di colpa esclusiva di questultimo, salvo i casi, del tutto eccezionali di inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile e oggettivamente improbabile devianza da quel programma condiviso di tutela della salute che accomuna tali soggetti.
La S.C., ritenendola più conforme al diritto, sceglie di aderire all'ultima delle ipotesi prospettate, precisando, in punto quantificazione del giudizio di rivalsa, l'applicabilità dei criteri generali di cui agli artt. 1298 C.C. e 2055 C.C., da cui deriva la necessità di parametrare la misura del regresso alla gravità delle rispettive colpe e all'entità delle conseguenze che ne sono derivate. In mancanza di prova da parte del solvens circa la diversa gradazione delle colpe e la derivazione causale del sinistro, dovrà però trovare applicazione il principio presuntivo di pari contribuzione al danno da parte dei condebitori solidali.
E' convincimento della S.C. che poiché la struttura si avvale della collaborazione di operatori sanitari per l'adempimento della propria obbligazione contrattuale nei confronti del paziente, la responsabilità della stessa, per i danni causati dai propri ausiliari, trova radice nel rischio di impresa connaturato all'utilizzazione dei terzi nell'adempimento dell'obbligazione ex art. 1228 C.C. La scelta di eseguire la prestazione mediante un ausiliario rientra nellambito del proprio rischio di impresa, il che vale ad escludere un diritto di rivalsa integrale della struttura stessa nei confronti del medico.
In particolare, osserva la Corte, la prestazione negligente del medico non può essere agevolmente isolata dal più ampio complesso delle scelte organizzative, di politica sanitaria e di razionalizzazione dei propri servizi operate dalla struttura; ne deriva l'operatività del principio presuntivo di divisione pro quota dell'obbligazione solidale tra la struttura stessa ed il medico; presunzione che potrà essere superata unicamente mediante la dimostrazione, da parte della struttura, non soltanto della colpa esclusiva dell'operatore, ma altresì della derivazione causale dell'evento dannoso da una condotta del medico dissonante rispetto al piano dell'ordinaria prestazione dei servizi di spedalità, intesa come grave, ma anche straordinaria, soggettivamente imprevedibile e oggettivamente improbabile malpractice. In assenza di tale prova di interruzione del nesso causale, la struttura dovrà essere ritenuta corresponsabile, sul piano dei rapporti interni, secondo la presunzione di pari contribuzione del danno di cui sono espressione l'art. 1298, comma 2, C.C. e l'art. 2055, comma 3, C.C. Diversamente opinando, conclude la S.C., una rivalsa integrale della struttura nei confronti del medico farebbe carico al solo sanitario del rischio di impresa, invece gravante sullazienda ospedaliera, dovendo la stessa conformarsi a criteri di organizzazione e gestione oggettivi distinti da quelli che governano la condotta del singolo medico.
In applicazione di tali principi la S.C. ha rigettato il ricorso, non avendo la struttura sanitaria ricorrente provato né allegato alcuna prevedibile e del tutto dissonante malpractice medica tale da interrompere il nesso di causa tra la propria condotta e il danno lamentato dalla paziente.
Il consenso informato all'atto medico
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Dove siamo giunti allo stato attuale.
Rodrigo de Castro, medico del 1600, nel suo trattato Medicus Politicus arriva ad affermare che “come il sovrano governa lo Stato e Dio governa il mondo, il medico governa il corpo umano”. Il medico cioè si trova in una posizione del tutto dominante con un potere assoluto sul paziente, determina in modo autoreferenziale che cosa è autorizzato a fare sul paziente, facendo la diagnosi e prescrivendo la terapia senza bisogno di informare il malato. Insomma guardando al passato ci si rifà ad un modello di medicina ove non vi era la necessità di ottenere un consenso se non quello già implicito nell’affidamento fiduciale. In questo quadro al medico nessun dovere gli richiedeva di dare conto di nulla e semmai gli obblighi di una qualche (seppur minima) informazione e di coinvolgimento nelle scelte sussistevano nei confronti dei familiari del paziente che erano i veri interlocutori del medico e sottoscrivevano con lui una sorta di alleanza terapeutica a beneficio del loro caro. Per molti secoli la medicina si è interrogata se le decisioni prese in scienza e coscienza da parte dei medici fossero giustificate dalle conoscenze scientifiche man mano che progredivano e orientate al migliore interesse del malato. Di certo la volontà del paziente e le sue preferenze non erano tenute in considerazione ed erano irrilevanti. Al medico veniva riconosciuto il peso della competenza professionale. Tutto cambia quando il soggetto paziente comincia a rivendicare il potere di autodeterminazione sulle decisioni che riguardano il proprio corpo. Ci si comincia ad informare e le informazioni sono sempre più facilmente rinvenibili (a dispetto dell’immutata possibilità di loro interpretazione che dipende da una molteplicità di fattori). Potremmo dire anche che, in questa ultima e più recente fase della nostra società, viviamo un momento di overdose di informazioni perché sono facilmente accessibili, sono troppe e riguardanti indistintamente tutte le arti, i mestieri e le professioni. Se vogliamo tutto ciò ha allontanato l’utenza in genere dai professionisti, perché crea un'iniziale diffidenza e la voglia di coglierli in fallo e , semmai, poterli smentire più che creare le condizioni per affidarcisi. In passato, quindi, per tutte le ragioni intrinseche legate alla percezione della professione da parte degli esercenti stessi, non vi era in assoluto (né percepito dal medico quale dovere ma neanche dal paziente quale diritto) un obbligo informativo.
Oggi la situazione è del tutto cambiata.
In primis vi è una recentissima legge sul tema, la n. 219 del 2017: Legge sul consenso informato e sulle DAT. Il senso della Legge è chiaro: promuovere e valorizzare, secondo la Legge, la relazione di cura e fiducia tra il paziente e il medico che si basa sul consenso informato. Il testo disciplina le modalità in cui tale consenso informato può essere espresso: “il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, è documentato in forma scritta attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare. Il consenso informato, in qualunque forma espresso, è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”.
L’obbligazione del consenso informato è un’obbligazione ex lege. Secondo quanto statuito, il consenso va dato per iscritto ma ciò, e la Giurisprudenza è chiara, non è sufficiente e bisogna anche dare la prova di aver realmente informato e cioè la prova che ciò che è stato detto è stato realmente compreso. Il consenso è tecnicamente una dichiarazione di scienza di carattere non negoziale la cui mancanza è, come vedremo, fonte di danno e di risarcimento.
La Giurisprudenza in questo senso ha compiuto un'intensa evoluzione.
Come prima cosa va evidenziato che il concetto di informazione concerne anche altre attività professionali e, sul punto, richiamo la nota ordinanza della Terza Sezione della Suprema Corte n. 19520 del 2019 sulle spiegazioni che deve fornire un avvocato al cliente. E' stabilito che il legale, nell'adempiere il mandato professionale conferitogli dal cliente, ha anche il dovere di sollecitarlo, dissuaderlo e informarlo, in particolare rappresentandogli tutte le questioni di fatto e diritto che rischiano di impedire il raggiungimento del risultato o che possono produrre il rischio di effetti dannosi.
Vi è però da dire che lo sviluppo maggiore riguarda senz’altro il consenso informato nell’ambito sanitario.
Importante ad inizio anno l'ordinanza della quarta sezione della Cassazione n. 644 del 2019: l'assenza di consenso informato determina responsabilità medica anche in mancanza di previsioni specifiche ed anche se l'operazione è stata eseguita correttamente.
Del giugno di quest’anno è l’altra importante pronuncia della Corte di Cassazione - sez. III civ. che con la sentenza n. 16892/2019 ha nuovamente argomentato sul danno da mancata acquisizione del consenso informato. La Suprema Corte, in questo caso, ha stabilito che l’acquisizione da parte del medico del consenso informato costituisce prestazione altra e diversa da quella dell’intervento medico e, di conseguenza, la mancanza di consenso informato del paziente è una fonte di responsabilità ulteriore e autonoma rispetto a quella derivante dall’errata esecuzione della prestazione medica.
Da ultimo richiamiamo la sentenza n. 28985 dell’11 novembre 2019 della Suprema Corte (facente parte del gruppo delle sentenze dette di “san Martino- bis”) ove la stessa ha evidenziato che la mancata informazione può ledere diversi interessi sostanziali quali il diritto alla salute e il diritto all’auto determinazione. E’ evidente quindi che queste lesioni determinano diversi tipi di danni. Vanno date le prove specifiche su entrambe le tipologie di danno che potranno dimostrarsi lesionate. Quando si parla di consenso informato va tenuto conto che non è solamente la mancanza di informazione ciò che va esaminato ma, anche, va valutato se il paziente avrebbe optato per scelte diverse. Pensiamo per esempio alla legittima scelta di operarsi in un altro momento. E’ il paziente che deve allegare quali danni ha subito oltre, ovviamente, al danno biologico legato all'inesatta prestazione. I danni sono danni alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente, se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento (il relativo onere probatorio incombe sul paziente); secondariamente la violazione può determinare danni del diritto all’autodeterminazione richiedibile se, a causa del deficit informativo, il paziente avesse subito un pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale diverso dalla lesione al diritto alla salute. Le situazioni riguardano anche i casi di insufficiente informazione, pur se il paziente avrebbe comunque deciso di sottoporsi all’intervento ma, ovviamente, in questo caso potrà essere richiesto un danno alla salute ma non anche all’autodeterminazione. La prova della mancanza di consenso grava sempre sul danneggiato. E cosa succede se un paziente può dimostrare una vera ed assoluta carenza di consenso senza alcun danno alla salute? Tecnicamente niente. L’omessa informazione la si può far valere solo in caso di peggioramento alla salute. Il presupposto è sempre che si tratti di un pregiudizio di apprezzabile gravità ( il danno cioè deve superare la soglia della gravità e serietà).
Come deve essere l’informazione che deve essere data al paziente? In principalità certamente articolata e allargata, cioè prevedere anche il caso di possibilità di altri interventi che si rendessero necessari al momento dell’intervento programmato per scoperte sul paziente che vengano fatte direttamente quando già questo si trovi sul lettino operatorio. Tuttavia l’informazione deve essere "tante altre cose" e cioè: semplice, attuale, corretta, specificata, preventiva, aggiornata, consapevole, revocabile, libera, veritiera, razionale, completa e personalizzata. Ed allo stato sempre e comunque scritta.
Evidente come sia difficile che si riesca a dimostrare tutto ciò sia nei modi in cui la stessa è stata data e sia nella comprensione totale e reale in cui è stata conseguita, recepita e assimilata. Vi è allo stato un modo per uscire da questo vicolo cieco in cui si trova il sanitario (e cioè la struttura?) e poter addivenire ad un piena prova della completezza e della ricezione sicura dell’informazione data? Ritengo sarebbe possibile con l’acquisizione di una videoregistrazione. Si può obiettare che scardini un po’ di fiducia tra medico e paziente in uno dei passaggi “storici” più delicati e importanti del rapporto ma, in realtà, spiegandogli che è anche nel suo stesso interesse trovo che sarà un passaggio tanto prezioso quanto inevitabile. E poiché si va nella direzione delle cartelle cliniche elettroniche, la cosa potrà essere realizzata con estrema facilità. Tempo al tempo….
Dagli anni '70 alla legge gelli – bianco evoluzione sociale dei rapporti tra medici e pazienti ed in tema di responsabilita’ sanitaria
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Alcune considerazioni ...
Ogni fase sociale condiziona il mondo che la circonda. Le arti come le leggi. La sensibilità sociale percepisce e in parte riscrive le emergenze di una certa epoca e crea nuove esigenze e permea tutto ciò che l’uomo in quel dato periodo creerà. Il sentire comune condiziona tutto e quindi anche la cultura giuridica di un determinato momento storico. La coscienza sociale di un popolo in una determinata epoca costringe il legislatore a risolvere o regolare aspetti di responsabilità in modo da (cor)rispondere all’esigenza di tutela di quel determinato momento. Così è stato anche per la creazione di nuovi danni intesi come voci correlate a determinati diritti che, se lesi, meritavano ristoro. Nel mondo di ciò che è risarcibile la Suprema corte ha inserito in vari momenti storici danni risarcibili quali facenti parte del più vasto gruppo dei danni non patrimoniali che fino a poco prima non venivano presi in considerazione perché non “sentiti” -dai danneggiati stessi- quali danni risarcibili. Lesioni per le quali non era previsto un ristoro perché non avevano ancora compiuto una comparsa nella coscienza del popolo prima ancora che in quella dei giudici. Una fra tutti l’evoluzione del danno esistenziale.
L’epoca che viviamo (o quantomeno gli ultimi 30 anni) ha segnato fortemente anche la giurisprudenza e la produzione normativa legata alla responsabilità sanitaria. E il mondo sanitario anche nei vent’anni che hanno preceduto ha subito continui terremoti e totali sconquassamenti. Non si può pensare al punto in cui siamo arrivati senza sapere da dove si partiva (almeno rispetto a quello che qui ci interessa). Per questo occorre tornare circa agli anni 70.
Studiare ed esaminare quale sia stato il destino della responsabilità dei medici e delle aziende sanitarie significa anche comprendere l’evoluzione della percezione dell’uomo comune rispetto al mondo medico e sanitario. Se un tempo ormai remoto la medicina era del tutto immune da un giudizio dal basso proprio per la sua stessa “statura”, per una sorta di rispettoso ossequio dovuto a chi studiava molto e per fare una professione che tentava di curare e salvare le vite, nella moderna epoca si è sentita l’esigenza di tutelare sempre più l’utente non tanto e non solo da una scienza “lontana” ma più da scienziati a volte fallaci che non solo non riescono nel loro fine di curare ma che a volte, anzi, arrecano danni. Ragione per la quale si è arrivati a percepire anche la medicina come qualsiasi fatto umano che possa arrecare danni ingiusti che vadano quindi riparati. A volte si è deciso che ciò dovesse avvenire secondo il più classico dei principi, quello del neminem ledere. Ma partiamo dall’inizio. Come scriveva Edward Shorter negli anni ottanta “il fatto che tra i medici e i pazienti divampi uno scontro senza precedenti non ha nulla a che fare con i vizi e le virtù private. I medici non sono né brutali né avidi così come i pazienti non sono né stupidi né isterici. Le origini del conflitto sono da ricercare piuttosto nelle ben più profonde forze storiche di cui sono inconsapevoli gli uni degli altri”. Una specie di scontro medico – paziente era già stata teorizzata da Freidson che aveva parlato della fine della dominanza medica. Negli anni settanta questa teoria sfociava nel pensiero di un medico, Giulio Maccacaro, che promuoveva insieme a studiosi e colleghi il movimento di Medicina democratica. Basti pensare che qualche anno prima era l’epoca delle grandi lotte operaie e studentesche. Si volevano in qualche modo contrastare tutte le autorità e così, nel caso specifico, l’autorità del medico che autorizza ad un esercizio di insindacabile potere sul paziente. Da un punto di vista pratico in Italia tutto ciò conduceva alla creazione del Servizio Sanitario nazionale (siamo nel 1978) che portava a considerare il malato come un cittadino che “abitava” il mondo sanitario ed aveva conseguenti diritti. In questo contesto storico nasce anche il Tribunale del malato che sposta ulteriormente il potere nelle mani del cittadino con una funzione di governo insostituibile all’interno del Servizio Sanitario Nazionale stesso. Il paziente ha specifici diritti nei confronti del medico e del SSN. La medicina smette di essere una professione liberale estranea alla società (questa visione era in qualche modo necessaria perché la professione del medico potesse svolgere la sua funzione sociale al di sopra della responsabilità comune) e cala il sanitario in una nuova epoca in cui il professionista esercente la professione sanitaria è responsabile della persona che gli si affida. Questo conflitto scuote equilibri antichi. Il medico viene percepito dalla società (ed in particolare dall’“utenza”) come responsabile del malato e ciò indipendentemente da quello che la legge o la giurisprudenza riuscisse ancora con precisione a delineare. Arrivati a questo punto ci affaciamo negli anni 90. I pazienti sono sempre più informati e coscienti e chiedono sempre più di poter gestire il loro programma di cura. E’ in questo contesto che nascono le aziende sanitarie. Vengono cioè introdotte logiche (prima che nella terminologia proprio nella sostanza) che mai sono state usate nel mondo della medicina essendo proprie di un mondo amministrativo, contabile, in una parola aziendale appunto. Il malato che era diventato cittadino e poi utente di servizi diviene a questo punto un cliente. E il cliente, si sa, va soddisfatto….
La Giurisprudenza in questa fase comincia a subire una prima metamorfosi e prevede per il medico dipendente di aziende sanitarie una responsabilità extracontrattuale a differenza di quanto prevedeva per il medico libero professionista per la quale era di carattere contrattuale. Evidente che una scelta siffatta si riflette sul tipo di tutela che viene riconosciuta al paziente in primis in termini di prescrizione ed onere della prova. Ciò significa in sostanza che se agivi contro un medico di un ospedale avevi un termine per fare causa dimezzato (5 anni) e l’onere di dover provare e dimostrare l’inadempimento. Siamo sul finire della fase paternalistica della concezione etica che prescrive di agire, o di omettere di agire, per il bene di una persona senza che sia necessario chiedere il suo assenso, in quanto si ritiene che colui che esercita la condotta paternalistica (nel caso specifico il medico) abbia la competenza tecnica necessaria per decidere in favore e per conto del beneficiario (il paziente). Da questa prospettiva, il medico è impegnato a ripristinare una oggettiva condizione di salute (indipendente dalle preferenze del paziente) e la relazione è fortemente asimmetrica poiché il paziente viene considerato non solo privo della conoscenza tecnica ma anche incapace di decidere moralmente (sul tema del consenso informato rimandiamo ad altro post). I principi etici che sono alla base del paternalismo sono il principio di beneficenza – che prescrive l’obbligo di agire per il bene del paziente – ed il principio di non maleficenza – che esprime l’obbligo di non arrecare danno al paziente. In questa fase certamente vi era per il paziente una maggiore difficoltà di agire verso il medico dipendente. A questo punto la società cambia fortemente. Le tutele previste per i pazienti paiono enormemente insufficienti ed inadeguate. Inizia una fase sociale in cui il paziente comincia ad avere sempre meno fiducia nei medici (più che nella medicina) e si vogliono valorizzare le possibili difese, aumentandole (e senza porsi troppi limiti nel farlo). In questo cambio di vedute arriviamo alla fine degli anni 90 ove alcune importanti sentenze della Suprema Corte cambiano letteralmente la prospettiva ed equiparano il medico dipendente di una azienda sanitaria al medico libero professionista. Quindi facendo valere una responsabilità di natura contrattuale anche dove tecnicamente un contratto non c’è. Ciò è stato possibile sulla base di un rapporto che si instaura tra due soggetti che si incontrano pur senza che si espliciti un accordo tra di loro bensì un obbligo legale. Senza dilungarsi sull’origine di tale teoria, propria della dottrina tedesca, analizziamo le ragioni che possano averlo reso necessario in ambito di responsabilità medica. E’ evidente che vi sia l’assenza di un contratto in senso proprio tuttavia, ha obiettato chi sosteneva questa “teoria del contatto”, ricorre comunque un rapporto giuridico ben particolare che non può essere ricondotto semplicemente all’articolo 2043 c.c.! Quest’ultima norma, infatti, disciplina i casi in cui tra il soggetto danneggiante e danneggiato non esiste in assoluto alcun rapporto (basti pensare ad un sinistro stradale) se non il genericissimo dovere che ho sopra richiamato del di neminem laedere. Mentre quest’ultimo è in re ipsa un rapporto tra sconosciuti, ove uno dei due ha danneggiato l’altro tout court, invece il medico ed il paziente, ancorché il medico sia un dipendente ospedaliero, non possono essere trattati come due sconosciuti; in particolare il medico “non è un quisque de populo” (esattamente in questi termini si esprime la Cassazione) tenuto all’obbligo di non danneggiare l’altro, al pari di qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento; al contrario, costui è obbligato nei confronti del paziente, in virtù di precise disposizioni di legge nonché in virtù del contratto da quest’ultimo stipulato con l’azienda ospedaliera per il quale il soggetto medico lavora, a tutelarne la salute e ad operare per perseguire laddove possibile la sua guarigione.
Deve inoltre considerarsi che l’obbligazione di risarcire il danno in caso di inadempimento contrattuale, prevista e disciplinata dall’articolo 1218 c.c., non nasce solo dall’inadempimento di un contratto in senso stretto, ma anche da fonti non contrattuali: l’articolo 1173 c.c., infatti è esplicito in tal senso, stabilendo che l’obbligazione possa nascere da contratto, da fatto illecito, ma anche da ogni altro atto o fatto idoneo per l’ordinamento a produrre obbligazioni e, secondo questa interpretazione, credo potremmo affermare di trovarci proprio di fronte ad uno di quegli altri “atti o fatti idonei per l’ordinamento a costituire fonte di un’obbligazione”.
A prescindere dalle valutazioni prettamente tecniche su questa linea di giurisprudenza, è evidente che l’esigenza (di carattere chiaramente anche sociale) era quella di rafforzare le tutele riconosciute al paziente. Basti pensare anche all’applicazione continua in questa fase delle pronunce della Suprema Corte sull’art. 2236 c.c. in ambito extra contrattuale. Sempre in questa fase la giurisprudenza compie un percorso ben chiaro nel tentare di alleggerire il dovere ed il peso dell’onere probatorio dalle spalle del paziente. Ciò anche in ossequio a principi (che valgono invero sempre, allora come anche ora con il cambio ulteriore dell’onere della prova) di vicinanza alla prova e quindi di peculiare maggiore facilità per il medico nel fornirla. Questo momento giurisprudenziale determina che è il debitore che debba fornire la prova e ciò emerge chiaramente con la sentenza delle Sezioni Unite n. 13533 del 2001 ove il principio di massima statuito è quello secondo il quale il creditore deve fornire sia la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto leso sia dell’inadempimento della controparte. Secondo questa ben “pesante” pronuncia il debitore convenuto dovrà dimostrare solo il fatto lesivo e cioè estintivo del suo diritto. Per capirci, in ambito di responsabilità medica, significa che il paziente basta che provi il contratto con il medico libero professionista o il contatto sociale con il medico dipendente di ASL e allegare l’inadempimento e sarà quindi il medico a dover fornire la prova dell’esatto adempimento e, tale circostanza, configura la responsabilità del sanitario come una responsabilità di ordine misto cioè sia contrattuale che in parte extra contrattuale. Le Sezioni Unite sono tornate sul tema con una ulteriore pronuncia ben significativa e cioè la n. 577 del 2008 la quale evidenziava che spettasse al medico, per sottrarsi dalla responsabilità, provare che l’inadempimento non vi sia stato ovvero che non vi sia nesso di causalità tra il danno denunciato dal paziente e il suo eventuale inadempimento. Questo filone giurisprudenziale è evidente che tendesse a rafforzare la posizione e gli interessi del paziente determinando, se vogliamo in modo opposto e contrario a quello che era avvenuto negli anni ’90, un nuovo sistema squilibrato e sbilanciato questa volta però a favore del paziente. E’ in questo esatto momento storico che il mondo della medicina sente con estrema chiarezza tutto il turbamento di un attacco frontale che impedisce ai sanitari di lavorare serenamente. Il carico di denunce e di contenzioso civile è tanto e tale, con ovvie conseguenze anche sul profilo assicurativo, che i medici cominciano ad adottare veri e propri strumenti di medicina difensiva. Questo scrupolo, vorremo dire eccessivo, che impedisce un sereno svolgimento delle attività professionali determina come conseguenza un aumento abnorme della spesa pubblica con l’adozione di tutele quali la prescrizione di molteplici esami che oltre ad aumentare i costi di cura a volte possono anche esporre i pazienti a rischi inutili o non giustificati. In questo quadro di relazione terapeutica tra medico e paziente, così turbata da strumenti sovradimensionati di tutele da una parte e di responsabilità dall’altra, sono stati promulgate due provvedimenti normativi per far fronte a questa emergenza. La prima legge è la legge Balduzzi e, senz’altro la più importante, la seconda legge è quella che ha operato un maggior cambiamento di rotta. Questa seconda legge, la n. 24 del 2017 detta “legge Gelli-Bianco”, ha lo scopo principale di voler gestire il rischio sanitario riposizionando la responsabilità e il peso delle difese sulla struttura sanitaria per tutelare i singoli medici da un eccessivo numero di cause che senz’altro avevano esasperato gli esercenti la professione sanitaria. La scelta del legislatore è stata quindi quella di differenziare la posizione del medico che lavora nell’ambito di una struttura sanitaria e solamente in questo contesto entra in contatto con i pazienti e quello libero professionista. Questa legge evidentemente ci induce a pensare che il legislatore abbia voluto scardinare il concetto che i pazienti incontrati da un medico dipendente di un’azienda sanitaria nel contesto dell’ospedale siano suoi clienti. Ciò significa che la legge Gelli-Bianco, in qualche modo, supera la teoria del contatto sociale rovesciando aspetti della responsabilità sanitaria che avevano inceppato il sistema. Dopo questa legge è evidente che il paziente che intende far valere le sue ragioni verso il medico professionista “privato” o verso la struttura avrà comunque la “copertura” di una responsabilità in capo a questi soggetti di tipo contrattuale. Il preteso danneggiato allega l’inadempimento e prova il rapporto in base al quale attesta di aver subito il danno e solo il medico libero professionista o la struttura sono onerato della prova liberatoria. L’obbiettivo della legge verso questi soggetti è quello di riportare il rischio in capo a chi organizza e gestisce un’attività di carattere sanitario. L’organizzazione spetta all’azienda sanitaria che sarà tenuta a rispondere delle condotte responsabili dei medici di cui si avvale o spetta al medico libero professionista che organizza e gestisce la sua stessa attività. Il paziente invece che intenda agire contro il medico dipendente si troverà difronte ad un regime di responsabilità di quest'ultimo di tipo extracontrattuale che lo obbligherà a dover provare gli elementi costitutivi dell’illecito, il nesso di causalità del danno ed il tutto entro il termine di cinque anni. Ciò ferma l’eventuale rivalsa della Struttura in caso di dolo o colpa grave del sanitario (sul tema rimandiamo ad altro post). Creare una maggiore difficoltà probatoria del paziente in questi casi è proprio una delle ragioni che hanno motivato il legislatore a scrivere questa legge. Quindi il senso del perché scrivere questa Legge era evidente e a distanza di due anni pensare che non sia chiara la sua entrata in vigore (salvo gli aspetti processuali) ci fa agognare che i decreti attuativi non tardino ancora. Il sistema è stato condizionato da squilibri come abbiamo visto inizialmente a favore dei sanitari e chiaramente in eccesso e successivamente a favore dei pazienti. E’ evidente che la necessità sentita e cui la legge ha voluto rispondere era una necessità di bilanciamento se vogliamo una sorta di ricerca di maggior giustizia sociale in un quadro in cui il beneficiario di un servizio (tanto fondamentale) e l’esercente dello stesso non avevano ancora trovato il modo di vivere un rapporto tra di essi sereno con tutele ed obblighi maggiormente equilibrati.
La Legge Gelli – Bianco è una buona legge e riesce in questo bilanciamento ? Questa è tutta un’altra storia...
Responsabilità’ medica: alcuni recenti sviluppi della giurisprudenza della suprema corte in materia di danno da perdita di chance
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Un commento a Cassazione Civile, III Sez.,sentenza n° 28993/19 del 4.07-11.11.2019
Nell’epoca in cui viviamo, quando un paziente si rivolge ad un medico ed in generale ad una struttura sanitaria, nutre sempre più spesso la sopravvalutata speranza che la risposta terapeutica sia idonea a garantirgli un risultato positivo ed utile e, in caso contrario, è frequente la ricerca di un responsabile, un capro espiatorio, per le frustrate attese (non sempre fondate da un punto di vista legale e medico-scientifico) in capo al singolo o ai suoi eredi. La qualcosa, se può muovere umana comprensione di fronte a chi scopre di essere invero “piccolo” a fronte dei grandi e spesso tragici eventi della vita nonostante il progresso della scienza e della tecnica, non compatisce analoga apertura in termini giuridici. Ciononostante, i nostri Giudici non sono certo rimasti insensibili di fronte all’evolversi della coscienza sociale e si sono spesi, anche anticipando il Legislatore (come spesso accade) per fornire una risposta di Giustizia ancorata, però, ai princìpii fondamentali del nostro Ordinamento in materia di responsabilità, danno e nesso causale.
Uno degli ambiti in cui si sono susseguite numerosissime sentenze, sia di merito che di legittimità, è quello della c.d. “perdita di chance” rispetto alla quale anche recenti arresti hanno il merito di aver cercato di far chiarezza su di un argomento la cui origine risale ad una pronuncia della Sez. Lavoro della S.C. del 1985 in materia di perdita di chance di un partecipante ad un concorso amministrativo.
La più recente pronuncia sulla perdita di chance in ambito di malpractice medica si deve alla III Sez. Civile della S.C., con la sentenza n° 28993/19 del 4.07-11.11.2019 (Pres. Dott. Travaglino). Tale pronuncia richiama in realtà dei princìpii già espressi anche in analoghe sempre della III Sez. Civ. (n° 5641 del 09.03.2018; n° 6688 del 19.03.2018; n° 10424 del 15.09.2019) e conferma la sussistenza di tale danno, specificandone i caratteri essenziali e distintivi rispetto ad altri eventi di danno che, pur richiamando nel nomen una “perdita di probabilità/possibilità”, sono in realtà altro e differente danno. In estrema sintesi il caso concreto lamentato dai ricorrenti, tra i molteplici motivi di ricorso, era quello per cui la Corte d’Appello di Milano aveva errato non riconoscendo in capo al de cuius la perdita di possibilità terapeutiche in correlazione causale all’asserito ritardato e inadeguato intervento terapeutico, decisione basata sulla considerazione per cui - avendo affermato i CC.TT.UU. della fase di merito che, anche in ipotesi di intervento chirurgico anticipato, il paziente non avrebbe comunque nutrito possibilità di sopravvivenza apprezzabili - si doveva escludere la sussistenza di una lesione risarcibile anche in termini di perdita di chance quale possibilità di prolungamento della vita del congiunto.
La sentenza in esame compie un interessantissimo excursus, a partire dalla differenza ontologica sussistente tra la situazione di chi, leso rispetto alla pretesa alla legittimità dell’azione amministrativa, già parte da una situazione di per sé “positiva” poi irrimediabilmente compromessa (la c.d. chance “pretensiva”) e la diversa situazione di colui che già vive una situazione sfavorevole (a causa, ad esempio, di una sua propria patologia) e per cui può, conseguentemente ed eventualmente, crearsi una chance favorevole (prima non presente) dovuta proprio all’entrata in scena del sanitario (la c.d. chance “non pretensiva”). Si conferma, inoltre l’orientamento per cui, rispetto alla chance “patrimoniale”, la liquidazione del danno da perdita di chance “non patrimoniale” non potrà essere commisurata proporzionalmente al risultato andato perduto ma, invece, in via equitativa avuto riguardo alla possibilità perduta di conseguire quel risultato sperato(1). E, certamente, tale chance dovrà essere caratterizzata dai parametri di serietà, apprezzabilità e consistenza ed in cui il criterio statistico può costituire un elemento orientativo così da distinguere una concreta possibilità da una mera speranza ma, ciò, a fini risarcitori e senza che questo possa ingenerare confusione tra questo elemento (che configura, comunque, l’evento di danno) e l’altrettanto imprescindibile elemento richiesto del nesso causale. Infatti il Supremo Collegio si premura di evidenziare che è di primaria ed esiziale importanza, preliminarmente, indagare sul rapporto eziologico tra la condotta (commissiva e/o omissiva) colpevole e il danno da possibilità perduta di un risultato medico migliore. Non bisogna, infatti, in maniera assoluta, confondere la prova della probabilità e/o possibilità di conseguire il risultato (chance) rispetto alla (preliminare ed imprescindibile) prova della probabilità che la condotta dell’agente abbia causato il danno consistente nella perdita di detta chance (così respingendo precedenti orientamenti giurisprudenziali oppositivi rispetto al riconoscimento di tale voce di danno in quanto vedevano, così, inficiato il requisito dell’accertamento del nesso causale).
La Suprema Corte, poi, evidenzia come alla domanda del risarcimento da perdita di chance dev’essere riconosciuta autonomia propria rispetto ad altre voci di danno e dev’essere, quindi, specificata (rispetto al petitum) proprio in quanto caratterizzata da una propria autonomia, posto che se, per contro, si configurasse l’evento danno costituito non da una possibilità del risultato (id est, dalla perdita della possibilità di vivere meglio e/o più a lungo) ma, invece, dal mancato risultato (ad esempio, dalla rigorosamente accertata perdita anticipata della vita in correlazione eziologica con la condotta colpevole), allora si tratterebbe di un evento di danno affatto differente. Come già specificato in altre pronunce precedenti (cfr. Cass. n° 6688/18, cit. e n° 10424/2019, cit. ma, anche, Cass. Civ., Sez. III Civ. , n° 23864/2008 e Cass. Civ., Sez. III Civ. , ord. n° 2760 del 23.03.2018) non si deve confondere il concetto di perdita di chance con la perdita di beni del cui relativo diritto il paziente sia già pienamente titolare. Chance, quindi, come lesione di una possibilità protesa verso il futuro e non di un’attualità (come potrebbe essere, ad esempio, il danno subìto da un malato comunque terminale che, a causa di un’omessa o colpevole condotta sanitaria, abbia visto sensibilmente peggiorata la qualità di vita residua per mancata adozione di cure palliative oppure per non aver potuto concretamente adottare determinazioni per sé o per i suoi affetti). La Cassazione, quindi, formula dei distinguo ... quasi un vademecum ... a seconda dell’esito (rectius: dell’evento di danno) di una condotta colpevole commissiva od omissiva, previo imprescindibile accertamento - rispetto a questa - della sussistenza del nesso causale (necessariamente certo ovvero “più probabile che non”, da esclusdersi in caso, ad esempio, di multifattorialità dell’evento per concorso di cause che determinino in capo al C.T.U. assoluta incertezza):
morte (certa o altamente probabile) di un paziente altrimenti curabile;
riduzione (certa o altamente probabile) della durata e peggior qualità di vita del paziente;
incidenza (certa o altamente probabile) sulla qualità ed organizzazione della vita del paziente e conseguente lesione del diritto di autodeterminazione;
alcun esito differente;
incertezza sull’eventualità di maggior durata della vita e/o minori sofferenze e/o delle terapie possibili.
Solamente nel 5° ed ultimo caso (“incertezza eventistica”) sarebbe legittimamente consentito di poter parlare di danno da perdita di chance che potrebbe essere risarcito equitativamente qualora la detta probabilità sia apprezzabile, seria e consistente (intendendosi la chance come “possibilità priva di misura ma non di contenuto”). I quattro precedenti costituiscono casi di autonomi e differenti eventi di danno risarcibili in quanto non tanto trattasi di possibilità (rectius, incertezza) del risultato sperato ma di vero e proprio mancato risultato sic et simpliciter.
Si viene a specificare, quindi, che la chance perduta identifica il danno, lo qualifica ma non incide sul problema del nesso causale che va risolto con pienezza e secondo le consuete ed immutate regole a monte ed a prescindere dall’evento danno (e, quindi, in caso di incertezza insanabile sull’eziologia non potrà conseguire alcun risarcimento). Il risarcimento in quest’ultimo caso potrà essere liquidato facendo uso del criterio equitativo mentre, negli altri, in cui non dovesse esserci incertezza alcuna sul piano c.d. “eventistico”, andrà risarcito integralmente tout court come danno, ad esempio, da perdita anticipata del rapporto parentale se fatto valere jure proprio o da perdita anticipata della vita se fatto valere jure hereditatis (sgombrando il campo da equivoche locuzioni quali “perdita della possibilità di vivere meglio”, “perdita della possibilità di organizzarsi al meglio per il tempo di vita residuo” o “perdita della possibilità di godere del rapporto con il congiunto”). Ad esempio, in materia di omessa tempestiva diagnosi di patologie oncologiche ad esito comunque infausto, è stata affermata (cfr.: Cass. n° 10424/19, cit.) l’erroneità dell’assunto per cui la condotta diagnostica colpevole “non abbia inciso sulla qualità di vita del paziente” in quanto siffatta affermazione non tiene conto della circostanza per cui - in quel lasso di tempo - il paziente è vissuto senza che si potesse apportare un qualsiasi beneficio alla qualità di vita per causa della diagnosi erronea e, in ogni caso, non è stato messo in condizione di scegliere come programmare il suo essere persona, ovvero scegliere “che fare” nell’ambito delle possibili proposte suggerite dalla scienza medica per quei casi. Costituisce, quindi, un errore censurabile quello del giudice che incentri la propria motivazione a supporto del rigetto della domanda risarcitoria esclusivamente sull’assenza di prova che una ritardata diagnosi avrebbe compromesso le chance di guarigione o, almeno, di una maggiore sopravvivenza qualora si provato che tale ritardo abbia “determinato ... la perdita di un bene reale, certo (sul piano sostanziale) ed effettivo, non configurabile alla stregua di un “quantum” ... di possibilità di risultato o di un evento favorevole ...” (che configurerebbe la corretta e basilare definizione di chance in responsabilità civile, N.d.R.) - “...ma apprezzabile con immediatezza quale correlato diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali anche in presenza di patologie a sicuro esito infausto”. Così, pure, è stato sancito che l’obbligazione sussistente in capo al sanitario di fornire una completa ed esaustiva informazione deve considerarsi estesa all’esplicazione in termini intelligibili per il paziente del significato del referto nonché delle conseguenze da trarre, comprese le eventuali ulteriori scelte terapeutiche e/o diagnostiche, posto che diversamente si potrà causare un danno coincidente con la lesione della qualità della vita per il tempo rimanente di un malato terminale (cfr.: Cass. n° 6688/18, cit.)_ In casi come questo si parla impropriamente di “perdita della possibilità” di fare qualcosa o di vivere meglio ma non è, questo, un caso di danno da perdita di chance in quanto l’evento danno è affermabile con certezza.
(1) Sulla distinzione tra chance “patrimoniale” e chance “non patrimoniale” è interessante, ad es., anche quanto scrive Cass. n° 6688/19, cit. per cui “la natura del danno dipende dalla natura del risultato reso impossibile ... omissis... Se, pertanto, il diritto aspirato presidia un bene patrimoniale, la perdita di chance di acquisirlo costituisce un danno patrimoniale, mentre s, al contrario, il diritto ha sotteso un bene non patrimoniale, quest’ultima è la natura anche del danno da perdita di chance”_
La Legge "GELLI _ BIANCO"
LEGGE 8.03.2017 N° 24
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Breve sintesi e alcuni spunti
E’ entrata in vigore il 1° aprile 2017 la LEGGE 8.03.2017 N° 24 pubblicata in G.U. il 17.03.17 [per il testo si rimanda al seguente link: http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/03/17/17G00041/sg]_
Punti “salienti” della riforma, in sintesi:
– Art. 1) l’integrazione del concetto di “DIRITTO ALLA SALUTE” (ex art. 32 Cost.) con il DIRITTO ALLA “SICUREZZA DELLE CURE” cui deve concorrere tutto il personale (comprensivo della prevenzione e gestione del rischio connesso alle prestazioni sanitarie e appropriato utilizzo delle risorse);
– Art. 2) attribuzione al DIFENSORE CIVICO di un ruolo di “garante per il diritto alla salute” con funzioni di segnalazione disfunzioni e interventi di tutela secondo la legislazione regionale;
– Art. 3) creazione, in ogni Regione, di un “CENTRO PER LA GESTIONE DEL RISCHIO SANITARIO E LA SICUREZZA DEI PAZIENTI” con funzione di raccolta dati da trasmettere ad un costituendo “OSSERVATORIO NAZIONALE DELLE BUONE PRATICHE SULLA SICUREZZA NELLA SANITÀ” con funzioni di:
• acquisizione dei dati regionali su rischio, eventi avversi e cause;
• individuazione delle misure per la prevenzione e la gestione del rischio sanitario e monitoraggio delle buone pratiche per la sicurezza delle cure e per la formazione/aggiornamento del personale attraverso la predisposizione di linee guida;
– Art. 4) TRASPARENZA:
• diritto ad ottenere copia della documentazione sanitaria entro 7 GIORNI dalla richiesta formulata dagli interessati;
• onere di pubblicazione in internet, da parte delle strutture sanitarie pubbliche o private, dei dati relativi ai risarcimenti erogati nell’ultimo quinquennio;
– Art. 5) elaborazione, da parte di enti e associazioni e istituti e società scientifiche iscritti in apposito albo (per i cui requisiti si rimanda ad apposito D.M.) delle “LINEE GUIDA” (integrati nel costituendo “SISTEMA NAZIONALE PER LE LINEE GUIDA”) che verranno, poi, pubblicate sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità Pubblica a cui si devono attenere gli esercenti le professioni sanitarie (con l’obbligo sussidiario, di attenersi – in mancanza di l.g. - alle cc.dd. “BUONE PRATICHE CLINICO-ASSISTENZIALI”);
– Art. 6) introduzione della fattispecie di reato p. e p. ex ART. 590-QUINQUES C.P. intitolato “RESPONSABILITÀ COLPOSA PER MORTE O LESIONI PERSONALI IN AMBITO SANITARIO” con cui si prevede un’ipotesi di esclusione da punibilità del soggetto autore, per sola imperizia, dell’evento (ex artt. 589 e 590 C.P.) ove siano state osservate le raccomandazioni delle linee guida o le buone pratiche clinico-assistenziali sempre che le l.g. o le b.p. siano adeguate al caso concreto;
– Art. 7, commi 1° e 2°)
o affermazione della RESPONSABILITÀ CONTRATTUALE DELLA STRUTTURA SANITARIA pubblica o privata ex artt. 1218 e 1228 C.C. se gli autori della condotta colposa e/o dolosa risultano essere:
soggetto esercente la professione sanitaria (ancorché scelto dal paziente e anche se non dipendente) di cui la struttura si avvalga nell’adempimento della propria obbligazione;
• soggetto erogante prestazione sanitaria:
• in regime di libera professione intramuraria;
• nell’ambito di sperimentazione e ricerca clinica;
• in regime di convenzione con il S.S.N.;
• attraverso la telemedicina_
– Art. 7, comma 3°)
o affermazione della RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE (ART. 2043 C.C.) DEI SOGGETTI ESERCENTI LA PROFESSIONE SANITARIA di cui ai commi 1° e 2° salvo abbiano agito in virtù di obbligazione contrattualmente assunta con il paziente.
o RISARCIMENTO determinato in ragione dell’analisi della condotta e sua adesione alle linee guida, buone pratiche e/o ex art. 590-sexies C.P.;
– Art. 7, comma 4°) il RISARCIMENTO DEI DANNI da derivanti da attività della struttura sanitaria pubblica e/o privata è determinato secondo le TABELLE DEGLI ARTT. 138 E 139 DEL CODICE DELLE ASSICURAZIONI PRIVATE;
– Art. 8 TENTATIVO OBBLIGATORIO DI CONCILIAZIONE
o quale CONDIZIONE DI PROCEDIBILITÀ DELL’AZIONE CIVILE (rilevabile dalla parte o d’Ufficio non oltre la prima udienza con assegnazione di termine di 15 gg. per porvi rimedio) nella forma del ricorso EX ART. 696-BIS C.P.C. _
In ALTERNATIVA rimane sempre efficace e valida a tutti gli effetti la previsione del ricorso alla MEDIAZIONE CIVILE ex art. 5, comma 1-bis, D.Lvo 04.03.2010;
la domanda diviene procedibile se la conciliazione fallisce o non si concluda perentoriamente entro 6 mesi dal deposito del ricorso ex 696-BIS C.P.C.;
gli effetti (si ritiene processuali e non sostanziali) della domanda introduttiva sono salvi se viene depositato (entro 90 gg. dal deposito della relazione di A.T.P. o dalla scadenza del termine perentorio di 6 mesi) il ricorso ex art. 702-bis C.P.C. innanzi al medesimo giudice che, poi, fisserà, udienza di comparizione. Si applicano gli artt. 702-bis C.P.C. e ss. (compreso l’eventuale mutamento di rito ex art. 702-ter, 4° c., C.P.C.)_
obbligo di partecipazione all’A.T.P. ex 696-BIS C.P.C. per tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione che assicurano le strutture ed i singoli sanitari (art. 10);
obbligo per le imprese di assicurazione di formulare un’offerta di risarcimento o di esporre i motivi per cui ritengono di non farlo (previsione di trasmissione all’IVASS, da parte del giudice, in caso di sentenza di accoglimento della domanda del danneggiato e mancata offerta)
previsione di condanna a pena pecuniaria a favore della parte comparsa, oltre che delle spese di consulenza e di lite, a carico dei soggetti che non partecipano alla procedura ex 696-BIS C.P.C. indipendentemente dall’esito a loro favorevole o meno della del giudizio_
– Art. 9)
o L’AZIONE DI RIVALSA nei confronti dell’esercente la professione sanitaria PER DOLO O COLPA GRAVE è esercitabile – QUALORA IL SANITARIO NON SIA STATO PARTE del giudizio o della procedura stragiudiziale – SOLO SUCCESSIVAMENTE AL PAGAMENTO del risarcimento (su titolo giudiziale o stragiudiziale) ed ENTRO UN ANNO DAL PAGAMENTO stesso.
o Nel giudizio di rivalsa la transazione non è mai opponibile al sanitario al pari della sentenza pronunciata in un giudizio di cui egli non abbia fatto parte (pur se il giudice del giudizio di rivalsa o del giudizio di responsabilità amministrativa è legittimato a desumere argomenti di prova dalle prove ivi assunte);
o L’AZIONE DI RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA per DOLO O COLPA GRAVE è esercitata dal P.M. presso la Corte dei Conti, in caso di condanna della struttura ai sensi dell’art. 7, commi 1 e 2 o del sanitario ai sensi del 3° comma;
o è stabilito il LIMITE MASSIMO DELL’IMPORTO DELLA CONDANNA per responsabilità amministrativa o per l’azione di surrogazione ex art. 1916 C.C. nella misura della retribuzione annuale del sanitario moltiplicata per il triplo;
o previsione di LIMITAZIONI A PROGRESSIONI DI CARRIERA in caso di condanna;
o casi di RIVALSA SENZA LIMITI:
esercente la professione sanitaria che svolga la propria attività al di fuori di una delle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private
esercente che presti la sua opera all'interno della stessa in regime libero-professionale ovvero che si avvalga della stessa nell'adempimento della propria obbligazione contrattuale assunta con il paziente;
– Art. 10)
o previsione di OBBLIGO di provvedere a COPERTURA ASSICURATIVA O ANALOGHE FORME (auto-assicurazione o “auto-ritenzione del rischio”) a carico delle strutture pubbliche o private per R.C.T. e R.C.O.:
per danni cagionati da personale a qualunque titolo operante, comprese attività di formazione/aggiornamento/sperimentazione e ricerca clinica);
oltre che per i soggetti di cui all’art. 7, comma 1° (soggetto esercente la professione sanitaria - ancorché scelto dal paziente e anche se non dipendente - di cui la struttura si avvalga nell’adempimento della propria obbligazione), per soggetti in regime di libera professione intramuraria, od esercenti l’attività nell’ambito di sperimentazione e ricerca clinica o in regime di convenzione con il S.S.N. oppure attraverso la telemedicina (art. 7, comma 2°)_
per le ipotesi di responsabilità ex art. 7, comma 3° (salva la rivalsa/azione di responsabilità amministrativa PER DOLO O COLPA GRAVE – per cui è in ogni caso OBBLIGATORIA un’autonoma POLIZZA assicurativa).
o previsione dell’OBBLIGO AD AUTONOMA COPERTURA ASSICURATIVA (già in vigore ex D.L. n° 138/2011) per DOLO o COLPA per:
esercente la professione sanitaria che svolga la propria attività al di fuori di una delle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private
esercente che presti la sua opera all'interno della stessa in regime libero-professionale ovvero che si avvalga della stessa nell'adempimento della propria obbligazione contrattuale assunta con il paziente;
o OBBLIGO, per gli esercenti la professione sanitaria, DI ASSICURAZIONE PER casi di DOLO e COLPA GRAVE;
o OBBLIGO per le strutture sanitarie di PUBBLICIZZARE sul proprio sito internet il NOMINATIVO della propria COMPAGNIA assicurativa, con indicazione per esteso di contratti, clausole o analoghe misure);
o previsione di emanazione, ENTRO 90 GG. dall’entrata in vigore della legge di un D.M. con cui si stabiliscono i criteri di vigilanza demandati a I.V.A.S.S. sulle imprese che intendano stipulare i sopracitati contratti;
o previsione di emanazione, ENTRO 120 GG. dall’entrata in vigore della legge di un D.M. con cui:
sono determinati i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e per gli esercenti le professioni sanitarie (con individuazione di classi di rischio a cui far corrispondere massimali differenziati);
sono determinati i requisiti minimi di garanzia e le condizioni generali di operatività delle altre analoghe misure, anche di assunzione diretta del rischio;
sono determinate le regole per il trasferimento del rischio nel caso di subentro contrattuale di un'impresa di assicurazione nonché la previsione nel bilancio delle strutture di un fondo rischi e di un fondo costituito dalla messa a riserva per competenza dei risarcimenti relativi ai sinistri denunciati;
sono individuati i dati relativi alle polizze di assicurazione e alle altre analoghe misure adottate e sono stabiliti le modalità e i termini per la comunicazione di tali dati da parte delle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e degli esercenti le professioni sanitarie all'Osservatorio;
sono stabiliste le modalità e i termini per l'accesso a tali dati.
– Art. 11) OBBLIGO DI ESTENSIONE TEMPORALE DELLA COPERTURA ASSICURATIVA ad eventi accaduti nei 10 anni antecedenti la conclusione del contratto purché denunciati all’impresa durante la vigenza temporale della polizza e di ultrattività (estesa agli eredi) per richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro 10 anni dalla cessazione definitiva dall’attività professionale e per fatti generatori di responsabilità verificatisi nel periodo di efficacia (incluso il periodo di retroattività);
– Art. 12)
o Introduzione dell’AZIONE DIRETTA DA PARTE DEL DANNEGGIATO nei confronti della Compagnia di assicurazione della Struttura (art. 10, comma 1°) e/o del sanitario (art. 10, comma 2°) entro il limite del massimale di polizza.
o Limitazione alle eccezioni opponibili se in contrasto con quelle del D.M. in via di emanazione che stabilirà i requisiti minimi (art. 10, comma 6°) e diritto dell’assicurazione alla rivalsa sempre nel rispetto dei limiti minimi stabilito dal detto D.M._
o Sussiste litisconsorzio necessario nel giudizio contro la Compagnia, rispettivamente, della Struttura e/o del sanitario.
o I termini di prescrizione dell’azione nei confronti della Compagnia analoghi a quelli previsti contro la struttura e/o il sanitario.
o la disposizione troverà applicazione dopo l’entrata in vigore dei D.M. che devono essere emanati entro 120 gg. dall’entrata in vigore della legge.
– Art. 13) OBBLIGO per le Strutture Sanitarie e le Imprese di assicurazione di COMUNICAZIONE all’esercente la professione sanitaria l’avvenuta INSTAURAZIONE DEL GIUDIZIO PROPOSTO IN VIA DI AZIONE DIRETTA ENTRO 10 GIORNI dalla notifica a mezzo p.e.c. o lettera racc. a.r. e, nei medesimi termini di 10 gg. e modalità, comunicano al soggetto l’avvio di trattative stragiudiziali e lo invitano a partecipare, pena l’inammissibilità dell’azione di rivalsa e/o responsabilità amministrativa;
– Art. 14)
o Istituzione del FONDO DI GARANZIA PER I DANNI DA RESPONSABILITÀ SANITARIA finanziato da un contributo annuale (rideterminato di anno in anno) posto a carico delle Imprese autorizzate all’esercizio delle assicurazioni per la R.C. sanitaria la cui gestione è affidata alla C.O.N.S.A.P. da parte del Ministero della Salute che concorre al risarcimento nei limiti delle proprie risorse finanziarie in caso di:
danno di importo eccedente i massimali previsti dai contratti di assicurazione (massimali minimi previsti dal D.M. di cui all’art. 10, comma 6 e soggetti a rideterminazione in ragione dell’andamento del Fondo stesso) stipulati dalla struttura ovvero dall'esercente la professione sanitaria;
impresa di assicurazione che al momento del sinistro si trovi in stato di insolvenza o di liquidazione coatta amministrativa o vi venga posta successivamente;
qualora la struttura ovvero l'esercente la professione sanitaria siano sprovvisti di copertura assicurativa per recesso unilaterale dell'impresa assicuratrice ovvero per la sopravvenuta inesistenza o cancellazione dall'albo dell'impresa assicuratrice stessa.
o previsione di emanazione, entro 120 gg. dall’entrata in vigore della legge di un D.M. per determinare:
misura e modalità di versamento del contributo;
i principi cui dovrà uniformarsi la convenzione tra Ministero e CONSAP Spa;
modalità di intervento, il funzionamento e il regresso del Fondo di garanzia nei confronti del responsabile del sinistro.
o la presente norma si applica ai sinistri denunziati successivamente all’entrata in vigore della Legge_
– Art. 15) C.T.U.
o Nei giudizi civili e penali, la consulenza tecnica e la perizia sono affidate ad UN MEDICO SPECIALIZZATO IN MEDICINA LEGALE E A UNO O PIÙ SPECIALISTI NELLA DISCIPLINA CHE ABBIANO SPECIFICA E PRATICA CONOSCENZA DI QUANTO OGGETTO DEL PROCEDIMENTO, scelti tra gli iscritti negli albi (ex art. 13 delle disposizioni per l'attuazione del C.P.C. e disposizioni transitorie, ex R.D. 18.12.1941, n° 1368 ed ex art. 67 norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del C.P.P.) in cui vanno indicate e documentate le specializzazioni degli iscritti esperti in medicina;
o l'incarico è conferito al collegio e per il compenso globale, non si applica l'aumento del 40% per ciascuno degli altri componenti (ex art. 53 T.U. – D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115);
o i Consulenti ed i Periti non devono essere in conflitto di interessi nello specifico procedimento o in altri connessi
o i C.T.P. da nominare nei procedimenti ex art. 696-bis (tentativo di conciliazione obbligatorio) devono possedere adeguate e comprovate competenze in materia di conciliazione anche mediante specifici percorsi formativi;
o REVISIONE DEGLI ALBI QUINQUENNALE per di garantire un'idonea ed adeguata rappresentanza di esperti delle discipline specialistiche oltre a quella medico-legale ed in cui, per ogni consulente, andrà indicata l'esperienza professionale maturata, il numero e alla tipologia di incarichi ricevuti e di quelli revocati_
– Art. 16) Gli atti e i documenti “interni” relativi al Risk Management non possono più essere acquisiti e/o utilizzati in ambito di procedimenti civili e penali_ Possono ora occuparsi di Risk Management anche specialisti in medicina legale o personale dipendente che possegga adeguata formazione e comprovata esperienza triennale.
– Art. 17) Clausola di salvaguardia rispetto alle Provincie Autonome di Trento e di Bolzano.
– Art. 18) “Clausola di invarianza finanziaria
1. Le amministrazioni interessate provvedono all'attuazione delle disposizioni di cui alla presente legge nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e comunque senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
… omissis …
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Alcune considerazioni e riflessioni personali posto che la c.d. Legge “Gelli-Bianco” si porrebbe il fine di riformare radicalmente il regime della c.d. medical malpractice ma, in realtà si presta a numerosi dubbi interpretativi e a diverse critiche lasciando, di fondo, la sensazione che in realtà, a livello pratico soprattutto per quanto riguarda l’asserito intento deflattivo delle cause, nulla è in sostanza veramente cambiato (o, comunque, ben poco) poiché permane integrale la possibilità di agire contro la Struttura Sanitaria (pubblica e/o privata) in via contrattuale (residuali essendo, nella pratica, i casi in cui l’azione civile si indirizza anche contro il sanitario) … così contribuendo a fornire alla data di entrata in vigore un significato del tutto metagiuridico ma comunque eloquente!
Solleva particolari dubbi il richiamo dell’art. 7, comma 4, agli artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni Private posto che, in questa Legge, si afferma espressamente che il danno si liquida in base a tali criteri.
Ora, posto che ad oggi l’art. 138 non ha trovato pratica attuazione in quanto non ancora emanato il relativo Decreto e che, al suo posto, si applicano (per lo più) le Tabelle di Milano, vi è da rilevare che entrambi gli articoli fanno in ogni caso riferimento ad una specifica posta di danno, ovvero il non patrimoniale.
Rilevato che anche il progetto di legge (n° 1063-A Camera dei Deputati: “Modifiche al codice civile, alle disposizioni per la sua attuazione e al codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, concernenti la determinazione e il risarcimento del danno non patrimoniale“ - http://documenti.camera.it/Leg17/Dossier/Pdf/GI0085A.Pdf) relativo al nuovo art. 84-bis delle disposizioni di attuazione del C.C. fa riferimento al solo danno non patrimoniale derivante dalla lesione temporanea o permanente dell'integrità psico-fisica ed al danno non patrimoniale derivante dalla perdita del rapporto di tipo familiare (per cui si stabilisce la loro liquidazione con valutazione equitativa, sulla base delle tabelle di Milano che vengono allegate alle disposizioni di attuazione del codice civile, fermo che il giudice potrà, tenuto conto delle condizioni soggettive del danneggiato, aumentare l'ammontare della liquidazione fino al 50% dovendo motivare la propria decisione) appare evidente che la formulazione a “numero chiuso” dei danni risarcibili in caso di medical malpractice porterebbe ad escludere una serie di danni ulteriori ma comunque significativi rientranti nel novero dei danni patrimoniali con lesione del principio di “integralità del risarcimento”, disapplicazione degli artt. 1223 e 2043 C.C. (diversamente da quanto avviene ad esempio per il Codice delle Assicurazioni private che, se per un verso ha sì delimitato il quantum relativo alle fattispecie del danno non patrimoniale ha, in ogni caso, mantenuto il diritto al risarcimento di tutti i danni conseguenti al sinistro stradale).
Altro punto da evidenziare è quello per cui, in definitiva, è a tutti gli effetti sancita la responsabilità contrattuale della Struttura sia per i diretti danneggiati sia per chi ha subìto danni riflessi (es.: i congiunti del danneggiato).
La disposizione relativa alla responsabilità extracontrattuale del sanitario (nei casi in cui questa sia ravvisabile) prevede la possibilità per il giudice di rideterminare il quantum risarcitorio e, questo, anche in senso riduttivo con la conseguenza che il soggetto leso potrebbe vedersi ridotta la liquidazione del danno (con violazione, anche in questo caso, del diritto all’integralità del risarcimento) per il solo fatto che il sanitario abbia osservato le linee guida, le buone pratiche o sia ritenuto non punibile ex art. 590-bis C.P. per colpa dovuta ad imperizia. In ogni caso, statisticamente, in civile le cause nei confronti del sanitario sono in numero esiguo e lo saranno ancora di più ora che è garantita un’azione contrattuale nei confronti della struttura (pubblica o privata che sia), in quanto garantisce minori oneri in materia di prova e più tempo per agire (prescrizione decennale)_
Perdita dell’efficacia concreta del previsto procedimento di conciliazione obbligatoria ex art. 696-bis C.P.C. quando solo si pensi che è, comunque, rimasta l’alternativa possibilità di ricorrere alla mediazione con minori vincoli operativi e di tempistiche. Il procedimento si presenta, in ogni caso, “farraginoso” e il termine di 6 mesi per la conclusione dell’a.t.p. difficilmente verrà rispettato nella maggioranza dei casi così, chi agirà, avrà l’onere, per non decadere dall’azione (per gli effetti processuali non sostanziali dell’azione) di introdurre un ricorso ex art. 702-bis “alla cieca” con, quasi sicuramente, la necessità di chiedere il mutamento del rito ex art. 702-ter o, comunque, la sospensione del procedimento in attesa del deposito dell’elaborato in a.t.p. (e se poi fosse sfavorevole?)_ Quindi, a questo punto, per la parte “attiva” si profila preferibile introdurre una causa ordinaria previo tentativo di mediazione come già accadeva “ieri”!
I Sanitari hanno comunque l’obbligo di provvedere alle coperture assicurative per dolo e colpa grave (ma se la Struttura in auto-assicurazione non avesse in concreto fondi adeguati? Sussistendo responsabilità solidale - per quanto nei confronti del sanitario, ex art. 2043 C.C. - è consigliabile che il sanitario provveda comunque ad un’adeguata copertura R.C. professionale completa). I soggetti che operano privatamente al di fuori della struttura o che hanno contratto personalmente con il paziente, devono comunque provvedere ad una copertura per R.C. tout-court.
E’ noto che il Parlamento o il Governo interverrà per modificare i limiti degli importi in caso di condanna per rivalsa e/o responsabilità amministrativa perché la norma, siccome formulata (“non può superare una somma pari al valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo”), porta a dei risultati spropositati. Si pensi anche solo – com’è già stato rilevato da alcuni Autori) ad un reddito di € 30.000,00 che comporterebbe un massimale di responsabilità di € 2.700.000,00 [30.000,00 x 90.000,00 (= 30.000,00 x3)]!
Dubbi sull’iter (eccessivamente burocraticizzato) a carico dei soggetti che intendano ottenere il riconoscimento ai fini della partecipazione alla formazione delle Linee Guida e dubbi per linee guida di nuova concezione che magari non fossero ancora recepite ma risultassero in concreto più efficaci e/o performanti (considerato, ad esempio che in penale il sanitario potrebbe anche non adeguarsi se in concreto non adeguate). E, lo stesso dicasi per linee guida elaborate da organismi sovranazionali o esteri non inclusi nell’elenco nazionale.
Positiva la rielaborazione del concetto di C.T.U. con la necessità di ricorrere ad un “collegio peritale” composto da medico-legale e specialista (in evidente In applicazione dell’art. 62 del Codice di Deontologia Medica).
Dubbi sulla portata del concetto di obbligatorietà dell’estensione della copertura assicurativa: si tratta di claims made retroattiva o di deeming clause? Nel secondo caso poche saranno le Compagnie di assicurazioni disponibili a concedere copertura se non dietro pagamento di premi elevatissimi!
Positiva l’estensione dell’obbligo di assicurazione delle strutture per danni cagionati dal personale a qualunque titolo (anche dipendenti e non solo i “quadri” o sanitari).
Ulteriori perplessità desta la questione relativa all'eventuale rivalsa/azione di responsabilità amministrativa basata sul presupposto per cui, in capo all’esercente l'attività sanitaria, sia ravvisabile il dolo e/o la colpa grave.
Fino ad oggi, infatti, sia in civile che anche in penale il giudice – salvo i fasi in cui espressamente era prevista la disamina ai sensi dell’art. 2223 c.c. – non si preoccupava di valutare tale presupposto in quanto era sufficiente la sussistenza o meno della colpa in generale per riconoscere il risarcimento o, al contrario, negarlo.
Il concetto di “colpa grave” appartiene, generalmente, alla Corte dei Conti nei giudizi di responsabilità amministrativa
Oggi, con la riforma, sarà necessario o, comunque, opportuno che tale valutazione venga fatta dal Giudice.
Per quanto concerne l'attore, costui non avrà particolare interesse a chiederla (tranne il caso minoritario in cui, agendo direttamente contro il sanitario oltre che contro la Struttura, ritenga di dover chiedere tale accertamento per poter ottenere il maggior risarcimento possibile in ragione della previsione di cui all’art. 7, comma 3º).
Ma è probabilmente la Struttura sanitaria e/o la Compagnia assicuratrice ad essere il soggetto più interessato, in astratto, a ottenere tale qualificazione – anche solo in via incidentale - rispetto alla possibilità di agire in rivalsa.
Si pone, quindi, una questione contraddittoria, infatti, posto che, se da un lato, il principale interesse sarebbe quello di contrastare la pretesa attorea e negare la responsabilità in toto, dall’altro in subordine si dovrebbe sostenere o, comunque, chiedere che sia posto al C.T.U. il quesito, al fine di delibare l’eventuale sussistenza di colpa grave (o dolo). Ma questo induce, altresì, a ritenere che allora vi sia, già in partenza, per lo meno teorica incompatibilità di posizioni e con conseguenti ripercussioni, ad esempio, sul patto di gestione della lite per cui, di norma nella fase ante riforma, corrispondeva alla normalità dei casi la circostanza per cui il difensore della struttura (solitamente nominato dalla Compagnia di assicurazioni) fosse il medesimo del sanitario. Il difensore della struttura (sia che venga nominato dalla Compagnia che dalla struttura in regime di autoassicurazione) potrebbe non essere in condizioni di ricoprire anche il ruolo di difensore del sanitario. E ciò anche considerando l’ipotesi che un’omessa domanda in giudizio diretta a far accettare la sussistenza o meno di colpa grave, potrebbe comportare in capo al difensore stesso una responsabilità professionale e, in capo alla struttura (rectius al suo rappresentante) una responsabilità per danno erariale in quanto potrebbe impedire una corretta azione di responsabilità amministrativa.
La Cassazione, con l’Ordinanza 11.11.2011 n° 23691, ha stabilito che l’istituto del processo sommario non trova indiscriminata applicazione.
Il procedimento speciale sommario, infatti, può essere attivato solo al verificarsi di un presupposto essenziale e, cioè, che la controversia rientri nella competenza, per valore e/o per materia, del Tribunale.
Se, come è probabile, la competenza per valore del G.d.P. è destinata ad aumentare (Legge, 28/04/2016 n° 57, G.U. 29/04/2016 - http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/04/29/16G00069/sg) nella misura in cui prevede la competenza per le cause relative a beni mobili di valore non superiore ad euro 30.000,00 si profila l'ipotesi che il G.d.P. non sia più competente per materia per le cause di responsabilità sanitaria tout court. Diversamente, con dubbi di disparità di trattamento ingiustificato, per le cause di valore fino ad € 30.000,00 sarebbe competente il G.d.P. nel caso in cui il procedimento conciliativo scelto dalla parte fosse la mediazione, diversamente il G.d.P., a seguito dell’A.T.P. ex art 696-bis C.P.C., dovrebbe mutare il rito e rinviare al Tribunale per i provvedimenti di competenza.
Avv_Giorgio_de’_Luigi®
Separazione e Divorzio - Spese ordinarie
e straordinarie - Protocollo del Tribunale
di Venezia
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utili linee guida
In data 20.09.2019 è stato firmato, tra il Presidente del Tribunale di Venezia e il Presidente del C.O.A. di Venezia il "PROTOCOLLO DI INTESA PER LA TRATTAZIONE DEI GIUDIZI IN MATERIA DI FAMIGLIA E DELLE PERSONE" Iin cui, tra le varie questioni, si affronta agli arti. 15 e 16 il tema della ripartizione delle spese "ordinarie" e "straordinarie" tra gli ex coniugi a favore dei figli.
In allegato è possibile eseguire il download dell'estratto.
Il fermo tecnico
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Facciamo il punto della situazione
Molto spesso subire un incidente stradale significa accusare danni fisici ma altresì spese di riparazione del mezzo (auto, autocarro, autobus, motociclo che sia). Va da sé che, se si ha ragione, questi danni divengono costi di cui si andrà a chiedere la rifusione. Ma un incidente stradale spesso comporta altre voci di danno ed una delle più significative e frequenti è il cosiddetto " fermo tecnico " che è un particolare pregiudizio di natura patrimoniale subìto dal proprietario di un veicolo - in corso e fino alla riparazione - e derivante dall’impossibilità di utilizzare l’automezzo durante tale periodo di sosta forzata in officina.
Orbene saper gestire correttamente la richiesta può evitare di vedersi respingere il risarcimento di questa, spesso gravoso quanto comune, voce di danno; e ciò sia in sede di trattativa bonaria con l’assicuratore del responsabile, sia in ipotesi di azione giudiziaria.
Recentemente la giurisprudenza – troppo spesso “oscillante” - è stata più chiara sul punto; quindi… vietato sbagliare!
In passato, anche recente, più diffusa era la tesi estensiva , con prenunce di Cassazione che arrivano fino al 2015 (v. l’ultima ha il n. 13215 del 2015 ) secondo la quale l’impossibilità di utilizzare il veicolo durante il tempo necessario di “fermo” alla sua riparazione coincideva, al tempo stesso, sia con la lesione del diritto del bene che con la conseguenza della lesione, cioè con l’impossibilità del godimento dell’autoveicolo, e quindi proprio per ciò determina un pregiudizio che di per sé non necessitava di ulteriore dimostrazione. Invero dall’anno 2017 la tesi che viene adottata è, invece, quella restrittiva , per la quale l’impossibilità di utilizzare il veicolo durante il tempo necessario alla sua riparazione viene identificata con il pregiudizio che si può accusare a causa della violazione del diritto leso e quindi con la possibile conseguenza di quello che è il danno al bene e non del danno in re ipsa (che significa il danno in se stesso).
La Corte di Cassazione ha sottolineato, infatti, con la sentenza n. 13718/2017 che il danno da "fermo tecnico" di veicolo incidentato “ deve essere allegato e dimostrato ” e la relativa prova non può avere ad oggetto la mera indisponibilità del veicolo, ma deve sostanziarsi nella dimostrazione o della spesa sostenuta per procacciarsi un automezzo sostitutivo, ovvero della perdita dell'utilità economica cioè di guadagno derivante dalla rinuncia forzata ai proventi ricavabili dal suo uso . Nella sentenza si legge che : “ la figura del danno in re ipsa è estranea al nostro ordinamento che subordina il risarcimento alla sussistenza di un concreto pregiudizio della sfera giuridica patrimoniale o non patrimoniale del richiedente”.
Oltre ad avere un automezzo fermo occorre, quindi, dimostrare la spesa viva di altro mezzo idoneo a sostituire quello incidentato (ed è il c.d. danno emergente) e/o l’eventuale perdita economica subita in termini di mancato guadagno (il c.d. lucro cessante) ed anche in questo caso le perdite possono essere di vario genere, ma vanno puntualmente provate e documentate.
Secondo l’insegnamento della Suprema Corte il danno in re ipsa appunto non può trovare ingresso nel nostro Ordinamento, giudizio proprio perché non coincide con l’evento dannoso in sé e riguarda, invece, le conseguenze che discendono dall’ eventus damni (cioè dell’evento dannoso). Si potrebbe affermare che, diversamente, ammettere il danno in se stesso si tradurrebbe nell’attribuire una funzione sanzionatoria cioè punitiva alla responsabilità civile cosa che non può essere al di fuori dei casi in cui la legge lo consente. Un fatto illecito comporta il risarcimento, cioè i riequilibrio, non comporta un castigo o una pena (salvo casi particolari).
In merito al c.d. fermo tecnico, ed al relativo risarcimento, la Suprema Corte è tornata con una recentissima Ordinanza che riprende codesti principi. Nell’Ordinanza che è del corrente anno e precisamente del 4/04/2019 n° 9348 della Cassazione civile, Sez. III^ , si legge infatti che: “ in caso di sinistro stradale, il cosiddetto danno da fermo tecnico non è presunto. Infatti, nel nostro Ordinamento, non trovano ingresso i danni in re ipsa, giacché il danno non coincide con l'evento dannoso, ma individua le conseguenze da esso prodotte; inoltre ammettere il risarcimento del danno per la mera lesione dell'interesse giuridicamente protetto significherebbe utilizzare la responsabilità civile in funzione sanzionatoria e ciò al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge. Grava sul danneggiato l'onere di allegare e dimostrare il pregiudizio subito, pertanto la prova del danno non può desumersi dalla mera circostanza dell'impossibilità di fruire del veicolo, né dal pagamento della tassa di circolazione (che prescinde dall'uso del mezzo ed è una tassa sulla proprietà dell’autoveicolo n.d.r.) e delle spese assicurative (la polizza può essere sospesa); infine, il deprezzamento del bene non è in nesso di relazione causale con il fermo tecnico, ma con la necessità di procedere alla riparazione del veicolo ”. (in Massimario.Foro.it - 27/2019).
Non basta dimostrare che il mezzo fosse fermo (mettiamo un furgone o autoarticolato pure indispensabile per la funzionalità di una ditta o dell’azienda o un veicolo pure essenziale per un rappresentante o agente di commercio, ecc. ) né basterà indicare il prezzo di un eventuale noleggio; occorrerà provare la spesa sostitutiva o la perdita di guadagno.
Va altresì sottolineato che non potrà neppure essere chiesta, quale prova, una consulenza tecnica d’ufficio estimativa atta a “q uantificare il danno materiale patito e il danno da fermo tecnico ” in quanto sarebbe meramente esplorativa, come tale non ammissibile.
In conclusione, come sostiene il Supremo Collegio l’indisponibilità di un autoveicolo durante il tempo necessario per le riparazioni costituisce un danno che deve essere allegato e dimostrato puntualmente .
Riassumendo in sintesi: che il veicolo sia fermo è il presupposto, ma occorre fornire o la prova della spesa sostenuta per procurarsi un mezzo sostitutivo oppure la prova della perdita subìta per avere dovuto rinunciare ai proventi ricavati dall’uso del mezzo poichè il danno da risarcire non coincide con l’evento dannoso, ma è individuato dalle conseguenze da esso prodotte . Ammettere il risarcimento del danno per la mera lesione dell’interesse giuridicamente protetto (nella fattispecie, il fermo di un veicolo) significherebbe configurare ed utilizzare la responsabilità civile in funzione sanzionatoria o punitiva, al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge.
La liquidazione equitativa del danno in se stesso non può sopperire al difetto di prova del danno, poiché essa presuppone che il pregiudizio del quale si reclama il risarcimento sia stato accertato e dimostrato nella sua consistenza ontologica. Se tale certezza non sussiste, il giudice non può procedere alla quantificazione del danno in via equitativa, non sottraendosi tale ipotesi all’applicazione del principio dell’onere della prova quale regola del giudizio, secondo il quale se il danneggiato che promuove una causa non ha fornito la prova del suo diritto la sua domanda sarà respinta, atteso che il potere del giudice di liquidare equitativamente il danno ha la sola funzione di colmare le lacune o le difficoltà insuperabili (v.: Art. 1226 Cod.Civ.) ai fini della sua precisa determinazione. E questo non sarebbe il caso.
Lo ribadiamo non potrà certamente essere una chiesta C.T.U. estimativa (come abbiamo visto tentato di fare più volte senza successo) per tentare di sopperire alla mancanza o non richiesta di prova. Sarebbe evidente che l’elaborato cui verrebbe chiamato a redigere il Consulente dell’Ufficio diverrebbe meramente esplorativo e per questa ragione la sua richiesta non potrà essere accolta da un Giudice. Il Consulente ha solamente il compito di colmare o supplire le carenze scientifiche e/o culturali e/o conoscitive e/o particolarmente specifiche del Giudice.
Il danno va correttamente chiesto, allegato e dimostrato diversamente verrà negat o.