DAGLI ANNI '70 ALLA LEGGE GELLI – BIANCO EVOLUZIONE SOCIALE DEI RAPPORTI TRA MEDICI E PAZIENTI ED IN TEMA DI RESPONSABILITA’ SANITARIA

Avv. Stefania Trivellato • nov 27, 2019

Alcune considerazioni ...

Ogni fase sociale condiziona il mondo che la circonda. Le arti come le leggi. La sensibilità sociale percepisce e in parte riscrive le emergenze di una certa epoca e crea nuove esigenze e permea tutto ciò che l’uomo in quel dato periodo creerà. Il sentire comune condiziona tutto e quindi anche la cultura giuridica di un determinato momento storico. La coscienza sociale di un popolo in una determinata epoca costringe il legislatore a risolvere o regolare aspetti di responsabilità in modo da (cor)rispondere all’esigenza di tutela di quel determinato momento. Così è stato anche per la creazione di nuovi danni intesi come voci correlate a determinati diritti che, se lesi, meritavano ristoro. Nel mondo di ciò che è risarcibile la Suprema corte ha inserito in vari momenti storici danni risarcibili quali facenti parte del più vasto gruppo dei danni non patrimoniali che fino a poco prima non venivano presi in considerazione perché non “sentiti” -dai danneggiati stessi- quali danni risarcibili. Lesioni per le quali non era previsto un ristoro perché non avevano ancora compiuto una comparsa nella coscienza del popolo prima ancora che in quella dei giudici. Una fra tutti l’evoluzione del danno esistenziale. 
L’epoca che viviamo (o quantomeno gli ultimi 30 anni) ha segnato fortemente anche la giurisprudenza e la produzione normativa legata alla responsabilità sanitaria. E il mondo sanitario anche nei vent’anni che hanno preceduto ha subito continui terremoti e totali sconquassamenti. Non si può pensare al punto in cui siamo arrivati senza sapere da dove si partiva (almeno rispetto a quello che qui ci interessa). Per questo occorre tornare circa agli anni 70.
Studiare ed esaminare quale sia stato il destino della responsabilità dei medici e delle aziende sanitarie significa anche comprendere l’evoluzione della percezione dell’uomo comune rispetto al mondo medico e sanitario. Se un tempo ormai remoto la medicina era del tutto immune da un giudizio dal basso proprio per la sua stessa “statura”, per una sorta di rispettoso ossequio dovuto a chi studiava molto e per fare una professione che tentava di curare e salvare le vite, nella moderna epoca si è sentita l’esigenza di tutelare sempre più l’utente non tanto e non solo da una scienza “lontana” ma più da scienziati a volte fallaci che non solo non riescono nel loro fine di curare ma che a volte, anzi, arrecano danni. Ragione per la quale si è arrivati a percepire anche la medicina come qualsiasi fatto umano che possa arrecare danni ingiusti che vadano quindi riparati. A volte si è deciso che ciò dovesse avvenire secondo il più classico dei principi, quello del neminem ledere. Ma partiamo dall’inizio. Come scriveva Edward Shorter negli anni ottanta “il fatto che tra i medici e i pazienti divampi uno scontro senza precedenti non ha nulla a che fare con i vizi e le virtù private. I medici non sono né brutali né avidi così come i pazienti non sono né stupidi né isterici. Le origini del conflitto sono da ricercare piuttosto nelle ben più profonde forze storiche di cui sono inconsapevoli gli uni degli altri”. Una specie di scontro medico – paziente era già stata teorizzata da Freidson che aveva parlato della fine della dominanza medica. Negli anni settanta questa teoria sfociava nel pensiero di un medico, Giulio Maccacaro, che promuoveva insieme a studiosi e colleghi il movimento di Medicina democratica. Basti pensare che qualche anno prima era l’epoca delle grandi lotte operaie e studentesche. Si volevano in qualche modo contrastare tutte le autorità e così, nel caso specifico, l’autorità del medico che autorizza ad un esercizio di insindacabile potere sul paziente. Da un punto di vista pratico in Italia tutto ciò conduceva alla creazione del Servizio Sanitario nazionale (siamo nel 1978) che portava a considerare il malato come un cittadino che “abitava” il mondo sanitario ed aveva conseguenti diritti. In questo contesto storico nasce anche il Tribunale del malato che sposta ulteriormente il potere nelle mani del cittadino con una funzione di governo insostituibile all’interno del Servizio Sanitario Nazionale stesso. Il paziente ha specifici diritti nei confronti del medico e del SSN. La medicina smette di essere una professione liberale estranea alla società (questa visione era in qualche modo necessaria perché la professione del medico potesse svolgere la sua funzione sociale al di sopra della responsabilità comune) e cala il sanitario in una nuova epoca in cui il professionista esercente la professione sanitaria è responsabile della persona che gli si affida. Questo conflitto scuote equilibri antichi. Il medico viene percepito dalla società (ed in particolare dall’“utenza”) come responsabile del malato e ciò indipendentemente da quello che la legge o la giurisprudenza riuscisse ancora con precisione a delineare. Arrivati a questo punto ci affaciamo negli anni 90. I pazienti sono sempre più informati e coscienti e chiedono sempre più di poter gestire il loro programma di cura. E’ in questo contesto che nascono le aziende sanitarie. Vengono cioè introdotte logiche (prima che nella terminologia proprio nella sostanza) che mai sono state usate nel mondo della medicina essendo proprie di un mondo amministrativo, contabile, in una parola aziendale appunto. Il malato che era diventato cittadino e poi utente di servizi diviene a questo punto un cliente. E il cliente, si sa, va soddisfatto….
La Giurisprudenza in questa fase comincia a subire una prima metamorfosi e prevede per il medico dipendente di aziende sanitarie una responsabilità extracontrattuale a differenza di quanto prevedeva per il medico libero professionista per la quale era di carattere contrattuale. Evidente che una scelta siffatta si riflette sul tipo di tutela che viene riconosciuta al paziente in primis in termini di prescrizione ed onere della prova. Ciò significa in sostanza che se agivi contro un medico di un ospedale avevi un termine per fare causa dimezzato (5 anni) e l’onere di dover provare e dimostrare l’inadempimento. Siamo sul finire della fase paternalistica della concezione etica che prescrive di agire, o di omettere di agire, per il bene di una persona senza che sia necessario chiedere il suo assenso, in quanto si ritiene che colui che esercita la condotta paternalistica (nel caso specifico il medico) abbia la competenza tecnica necessaria per decidere in favore e per conto del beneficiario (il paziente). Da questa prospettiva, il medico è impegnato a ripristinare una oggettiva condizione di salute (indipendente dalle preferenze del paziente) e la relazione è fortemente asimmetrica poiché il paziente viene considerato non solo privo della conoscenza tecnica ma anche incapace di decidere moralmente (sul tema del consenso informato rimandiamo ad altro post). I principi etici che sono alla base del paternalismo sono il principio di beneficenza – che prescrive l’obbligo di agire per il bene del paziente – ed il principio di non maleficenza – che esprime l’obbligo di non arrecare danno al paziente. In questa fase certamente vi era per il paziente una maggiore difficoltà di agire verso il medico dipendente. A questo punto la società cambia fortemente. Le tutele previste per i pazienti paiono enormemente insufficienti ed inadeguate. Inizia una fase sociale in cui il paziente comincia ad avere sempre meno fiducia nei medici (più che nella medicina) e si vogliono valorizzare le possibili difese, aumentandole (e senza porsi troppi limiti nel farlo). In questo cambio di vedute arriviamo alla fine degli anni 90 ove alcune importanti sentenze della Suprema Corte cambiano letteralmente la prospettiva ed equiparano il medico dipendente di una azienda sanitaria al medico libero professionista. Quindi facendo valere una responsabilità di natura contrattuale anche dove tecnicamente un contratto non c’è. Ciò è stato possibile sulla base di un rapporto che si instaura tra due soggetti che si incontrano pur senza che si espliciti un accordo tra di loro bensì un obbligo legale. Senza dilungarsi sull’origine di tale teoria, propria della dottrina tedesca, analizziamo le ragioni che possano averlo reso necessario in ambito di responsabilità medica. E’ evidente che vi sia l’assenza di un contratto in senso proprio tuttavia, ha obiettato chi sosteneva questa “teoria del contatto”, ricorre comunque un rapporto giuridico ben particolare che non può essere ricondotto semplicemente all’articolo 2043 c.c.! Quest’ultima norma, infatti, disciplina i casi in cui tra il soggetto danneggiante e danneggiato non esiste in assoluto alcun rapporto (basti pensare ad un sinistro stradale) se non il genericissimo dovere che ho sopra richiamato del di neminem laedere. Mentre quest’ultimo è in re ipsa un rapporto tra sconosciuti, ove uno dei due ha danneggiato l’altro tout court, invece il medico ed il paziente, ancorché il medico sia un dipendente ospedaliero, non possono essere trattati come due sconosciuti; in particolare il medico “non è un quisque de populo” (esattamente in questi termini si esprime la Cassazione) tenuto all’obbligo di non danneggiare l’altro, al pari di qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento; al contrario, costui è obbligato nei confronti del paziente, in virtù di precise disposizioni di legge nonché in virtù del contratto da quest’ultimo stipulato con l’azienda ospedaliera per il quale il soggetto medico lavora, a tutelarne la salute e ad operare per perseguire laddove possibile la sua guarigione.
Deve inoltre considerarsi che l’obbligazione di risarcire il danno in caso di inadempimento contrattuale, prevista e disciplinata dall’articolo 1218 c.c., non nasce solo dall’inadempimento di un contratto in senso stretto, ma anche da fonti non contrattuali: l’articolo 1173 c.c., infatti è esplicito in tal senso, stabilendo che l’obbligazione possa nascere da contratto, da fatto illecito, ma anche da ogni altro atto o fatto idoneo per l’ordinamento a produrre obbligazioni e, secondo questa interpretazione, credo potremmo affermare di trovarci proprio di fronte ad uno di quegli altri “atti o fatti idonei per l’ordinamento a costituire fonte di un’obbligazione”.
A prescindere dalle valutazioni prettamente tecniche su questa linea di giurisprudenza, è evidente che l’esigenza (di carattere chiaramente anche sociale) era quella di rafforzare le tutele riconosciute al paziente. Basti pensare anche all’applicazione continua in questa fase delle pronunce della Suprema Corte sull’art. 2236 c.c. in ambito extra contrattuale. Sempre in questa fase la giurisprudenza compie un percorso ben chiaro nel tentare di alleggerire il dovere ed il peso dell’onere probatorio dalle spalle del paziente. Ciò anche in ossequio a principi (che valgono invero sempre, allora come anche ora con il cambio ulteriore dell’onere della prova) di vicinanza alla prova e quindi di peculiare maggiore facilità per il medico nel fornirla. Questo momento giurisprudenziale determina che è il debitore che debba fornire la prova e ciò emerge chiaramente con la sentenza delle Sezioni Unite n. 13533 del 2001 ove il principio di massima statuito è quello secondo il quale il creditore deve fornire sia la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto leso sia dell’inadempimento della controparte. Secondo questa ben “pesante” pronuncia il debitore convenuto dovrà dimostrare solo il fatto lesivo e cioè estintivo del suo diritto. Per capirci, in ambito di responsabilità medica, significa che il paziente basta che provi il contratto con il medico libero professionista o il contatto sociale con il medico dipendente di ASL e allegare l’inadempimento e sarà quindi il medico a dover fornire la prova dell’esatto adempimento e, tale circostanza, configura la responsabilità del sanitario come una responsabilità di ordine misto cioè sia contrattuale che in parte extra contrattuale. Le Sezioni Unite sono tornate sul tema con una ulteriore pronuncia ben significativa e cioè la n. 577 del 2008 la quale evidenziava che spettasse al medico, per sottrarsi dalla responsabilità, provare che l’inadempimento non vi sia stato ovvero che non vi sia nesso di causalità tra il danno denunciato dal paziente e il suo eventuale inadempimento. Questo filone giurisprudenziale è evidente che tendesse a rafforzare la posizione e gli interessi del paziente determinando, se vogliamo in modo opposto e contrario a quello che era avvenuto negli anni ’90, un nuovo sistema squilibrato e sbilanciato questa volta però a favore del paziente. E’ in questo esatto momento storico che il mondo della medicina sente con estrema chiarezza tutto il turbamento di un attacco frontale che impedisce ai sanitari di lavorare serenamente. Il carico di denunce e di contenzioso civile è tanto e tale, con ovvie conseguenze anche sul profilo assicurativo, che i medici cominciano ad adottare veri e propri strumenti di medicina difensiva. Questo scrupolo, vorremo dire eccessivo, che impedisce un sereno svolgimento delle attività professionali determina come conseguenza un aumento abnorme della spesa pubblica con l’adozione di tutele quali la prescrizione di molteplici esami che oltre ad aumentare i costi di cura a volte possono anche esporre i pazienti a rischi inutili o non giustificati. In questo quadro di relazione terapeutica tra medico e paziente, così turbata da strumenti sovradimensionati di tutele da una parte e di responsabilità dall’altra, sono stati promulgate due provvedimenti normativi per far fronte a questa emergenza. La prima legge è la legge Balduzzi e, senz’altro la più importante, la seconda legge è quella che ha operato un maggior cambiamento di rotta. Questa seconda legge, la n. 24 del 2017 detta “legge Gelli-Bianco”, ha lo scopo principale di voler gestire il rischio sanitario riposizionando la responsabilità e il peso delle difese sulla struttura sanitaria per tutelare i singoli medici da un eccessivo numero di cause che senz’altro avevano esasperato gli esercenti la professione sanitaria. La scelta del legislatore è stata quindi quella di differenziare la posizione del medico che lavora nell’ambito di una struttura sanitaria e solamente in questo contesto entra in contatto con i pazienti e quello libero professionista. Questa legge evidentemente ci induce a pensare che il legislatore abbia voluto scardinare il concetto che i pazienti incontrati da un medico dipendente di un’azienda sanitaria nel contesto dell’ospedale siano suoi clienti. Ciò significa che la legge Gelli-Bianco, in qualche modo, supera la teoria del contatto sociale rovesciando aspetti della responsabilità sanitaria che avevano inceppato il sistema. Dopo questa legge è evidente che il paziente che intende far valere le sue ragioni verso il medico professionista “privato” o verso la struttura avrà comunque la “copertura” di una responsabilità in capo a questi soggetti di tipo contrattuale. Il preteso danneggiato allega l’inadempimento e prova il rapporto in base al quale attesta di aver subito il danno e solo il medico libero professionista o la struttura sono onerato della prova liberatoria. L’obbiettivo della legge verso questi soggetti è quello di riportare il rischio in capo a chi organizza e gestisce un’attività di carattere sanitario. L’organizzazione spetta all’azienda sanitaria che sarà tenuta a rispondere delle condotte responsabili dei medici di cui si avvale o spetta al medico libero professionista che organizza e gestisce la sua stessa attività. Il paziente invece che intenda agire contro il medico dipendente si troverà difronte ad un regime di responsabilità di quest'ultimo di tipo extracontrattuale che lo obbligherà a dover provare gli elementi costitutivi dell’illecito, il nesso di causalità del danno ed il tutto entro il termine di cinque anni. Ciò ferma l’eventuale rivalsa della Struttura in caso di dolo o colpa grave del sanitario (sul tema rimandiamo ad altro post). Creare una maggiore difficoltà probatoria del paziente in questi casi è proprio una delle ragioni che hanno motivato il legislatore a scrivere questa legge. Quindi il senso del perché scrivere questa Legge era evidente e a distanza di due anni pensare che non sia chiara la sua entrata in vigore (salvo gli aspetti processuali) ci fa agognare che i decreti attuativi non tardino ancora. Il sistema è stato condizionato da squilibri come abbiamo visto inizialmente a favore dei sanitari e chiaramente in eccesso e successivamente a favore dei pazienti. E’ evidente che la necessità sentita e cui la legge ha voluto rispondere era una necessità di bilanciamento se vogliamo una sorta di ricerca di maggior giustizia sociale in un quadro in cui il beneficiario di un servizio (tanto fondamentale) e l’esercente dello stesso non avevano ancora trovato il modo di vivere un rapporto tra di essi sereno con tutele ed obblighi maggiormente equilibrati.
La Legge Gelli – Bianco è una buona legge e riesce in questo bilanciamento ? Questa è tutta un’altra storia...
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