Compensatio Lucri Cum Damno

Avv. Stefania Trivellato e Dott. Andrea Semenzato • nov 11, 2021

Il brocardo latino “compensatio lucri cum damno”, in una prima e semplicistica definizione, è riassumibile come il dovere, in capo all'organo giudicante, di tener conto dell'eventuale vantaggio conseguito dal danneggiato in seguito di un illecito e, conseguentemente, ridurre proporzionatamente il risarcimento derivante dallo stesso. 

Il principio summenzionato è stato di recente protagonista di un acceso dibattito tanto da parte della dottrina quanto da parte della giurisprudenza circa la sua operatività nel nostro ordinamento e – in caso di risposta affermativa – circa il suo ambito di applicazione. 

Tali dubbi sono accresciuti negli ultimi decenni in quanto, in assenza di una norma ad hoc, le divergenze dottrinali sull'argomento hanno fatto vacillare un consolidato orientamento giurisprudenziale che sposava l'interpretazione poc’anzi menzionata. Le critiche mosse dagli studiosi del diritto facevano leva sulla circostanza che una ricostruzione di quel tenore risultava troppo generalizzante e, quindi, inadatta poiché obsoleta rispetto alla complessità della nostra epoca. L'attualità del problema, più nello specifico, deriva dalla recente diffusione del welfare pubblico e privato, in quanto la casistica che incrocia la responsabilità civile con i sistemi di assicurazione sociale (o privati) è in costante crescita.


Nel 2018 sono intervenute la Suprema Corte di cassazione civile e il Consiglio di Stato con una serie di pronunce (quattro per la prima, una per la seconda) al fine di fornire dei principi e criteri guida atti a risolvere definitivamente il problema relativo all’operatività della c.d. compensatio. Le innovazioni sono così riassumibili:

  1. superamento del presupposto dello “stesso titolo” che statuiva l'operatività della compensatio solo nelle (rarissime) ipotesi in cui lucro e danno erano accomunati dallo stesso titolo o dalla stessa fonte; 
  2. facendo leva sull'art. 1223 c.c., la compensatio assurge a regola generale, facendo declassare così il cumulo a mera eccezione. 
  3. ai fini dell'operatività della compensatio sono ora necessari i seguenti presupposti:

ü  nesso causale: l'illecito deve configurarsi come “circostanza occasionale e giuridicamente irrilevante” ai fini della produzione del vantaggio;

ü  funzione risarcitoria del vantaggio: essa deve essere diretta e mai mediata. È necessario dunque indagare la causa dell'arricchimento da parte del danneggiato per trovare con tale beneficio un collegamento diretto con l'obbligazione risarcitoria;

ü  rapporti bilaterali semplici: la compensatio opera solo quando il soggetto tenuto al risarcimento è lo stesso tenuto all'erogazione del beneficio. Se non ci fosse questa confusione il danneggiante verrebbe avvantaggiato a seguito del beneficio in capo al danneggiato da parte di un terzo. Epilogo, questo, pacificamente ingiusto.


Ad ogni modo, e nonostante i rilievi appena evidenziati, non si può disconoscere che questa rivoluzione interpretativa della compensatio abbia – almeno in parte – superato l'ormai obsoleta concezione della rigida distinzione tra risarcimento e indennizzo, sempre radicalmente separati l'uno dall'altro da un punto di vista concettuale senza realizzare, fino ad oggi, che in realtà sono entrambi accomunati dalla loro funzione: quella di riparare il danno, sia esso patrimoniale o non patrimoniale. 


Purtroppo, l'enorme passo avanti fatto dalla giurisprudenza attraverso le cinque pronunce sopra sintetizzate, non è rimasto immune da critiche. In particolare, esiste ancora una parte della dottrina che manifesta il proprio dissenso circa l'operatività “a portata generale" della compensatio. Ciò perché la sua applicazione risulterebbe ingiusta nell'ipotesi di una polizza infortuni, considerando che la stessa può avere in molteplici occasioni una funzione prevalentemente previdenziale rispetto a quella indennitaria. 


Un'ulteriore e importante critica si allaccia al presupposto vincolante dei rapporti bilaterali semplici.

Parte della dottrina non è stata convinta relativamente al requisito della coincidenza tra soggetto-danneggiante e soggetto tenuto a far conseguire il vantaggio. Ciò perché, sotto un aspetto squisitamente logico, un vantaggio rimane tale a prescindere da chi lo abbia “generato” e, di conseguenza, dovrebbe essere preso in considerazione nella sua oggettività prescindendo, quindi, dall'elemento soggettivo. 


Tale criterio, inoltre, comporta in sé un paradosso, consistente nell'istituto della surroga. Questa, infatti, andrebbe inevitabilmente a mal conciliarsi con il vincolo dell'unicità del soggetto.

Accettare un'interpretazione restrittiva che ne escluda l’istituto, a detta della dottrina dissenziente, cambierebbe la ratiodella compensatio, che da una funzione compensativa-risarcitoria involverebbe in una meramente punitiva. L'involuzione, evidenziano i giuristi critici, si sostanzierebbe nel proiettare la questione su un piano meta-giuridico: da un punto di vista meramente giuridico, infatti, il danneggiato riceverebbe uno specifico quantum risarcitorio a prescindere dal soggetto tenuto alla compensatio. La carenza, in caso di surroga (o, più in generale, di assenza di rapporti bilaterali semplici), si sostanzierebbe solo nella decurtazione (o esenzione) dell'obbligo risarcitorio del danneggiante, che quindi si troverebbe “ingiustamente” avvantaggiato. Ma la compensatio, è opportuno precisarlo nuovamente, ha come fine ultimo quello di indennizzare il danneggiato, non di punire il danneggiante, che è solo il risvolto fisiologico del risarcimento medesimo. 


Non resta che da chiedersi se esistano o no degli strumenti a carattere generale all'interno del nostro ordinamento, capaci di porre tutela in queste ipotesi. La risposta è plausibilmente affermativa. 

Una prima soluzione per il terzo che abbia erogato il beneficio con funzione risarcitoria e non esistano strumenti ad hocper ripetere quanto erogato, potrebbe ravvisarsi nell'articolo 2041 c.c., corrispondente alla tutela contro l'arricchimento senza giustificato motivo. L’istituto è infatti connotato da una natura sussidiaria ed opera in tutti quei casi in cui non esista altro rimedio di carattere più specifico. 

L'art. 2041 c.c., tuttavia, troverebbe difficile applicazione in una ipotesi di arricchimento c.d. “indiretto” (che è il caso di nostro interesse). Sul punto, la giurisprudenza fornisce due soluzioni tra loro contrastanti: una prima, maggioritaria, riconosce l'operatività dell'azione contro l'arricchimento senza causa per i soli vantaggi diretti o bilaterali, escludendola invece per quelli trilaterali o indiretti; l'orientamento minoritario, invece, riconosce l'applicabilità dell'art. 2041 c.c. anche per queste ultime ipotesi.


Nonostante ciò, esiste un'apertura anche sposando la ricostruzione maggioritaria dei giudici della Suprema Corte: gli ermellini hanno infatti ammesso un'eccezione al principio qualora l'arricchimento conseguito dal terzo fosse a titolo meramente gratuito.

Una seconda soluzione, poi, può individuarsi nella surrogazione legale, attraverso un'interpretazione estensiva dell'art. 1203, n.3, c.c. 

Questo approccio era già stato tentato con il recupero da parte del SSN delle prestazioni sanitarie erogate a seguito di un fatto illecito altrui ex art. 2043 c.c. Ancora una volta, però, l'orientamento non è unanime: se una parte della giurisprudenza ammette l'operatività del 1203 c.c., un'altra non lo ritiene operativo. 

La disputa deriva dal tenore letterale dell'art. 1203 c.c., il quale richiede, per la sua applicabilità, di “essere tenuto con altri o per altri al pagamento del debito” e avere “interesse di soddisfarlo”. La prima locuzione riportata, esclude in re ipsa i casi di pagamento spontaneo. Sempre lo stesso periodo chiarisce che l'obbligo di pagamento non è proprio del solvens, che comunque deriva da un interesse giuridicamente qualificato. E se esiste tale interesse, non v'è di certo la spontaneità del pagamento: ergo, può rendersi possibile la surrogazione legale anche per le ipotesi su cui si sta discutendo. 


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