La responsabilità omissiva sanitaria

Avv. Stefania Trivellato • gen 31, 2022

Ogni epoca è caratterizzata da una particolare coscienza sociale che condiziona il legislatore a regolare e risolvere aspetti di responsabilità che possono essere di volta in volta del tutto nuovi. L’epoca che viviamo, a partire circa dagli anni ’70, ha condizionato una imponente produzione normativa legata alla responsabilità sanitaria che ha determinato una casistica che a sua volta ha alimentato una produzione giurisprudenziale sempre più intensa. Nel mondo della responsabilità sanitaria il rapporto tra il medico ed il paziente è mutato grandemente.

Il mondo della medicina un tempo era impermeabile a critiche dal basso e ciò per una sorta di dovuto rispetto verso colui che tanto aveva studiato per curare e salvare le vite, ma in questo percorso sempre più si è sentita l’esigenza di tutelare il paziente da scelte fallaci e professionisti pur sempre umani che non solo non sempre riuscivano a curare ma che a volte, anzi, arrecavano danni. E proprio nell’epoca in cui si sviluppavano le grandi lotte dal basso erano maturi i tempi perché il medico smettesse di esercitare un potere di scelta insindacabile e non condiviso sul paziente.

Sempre più si sono delineati i diritti del malato (nel 1978 nasce il Tribunale del malato) e sempre più il medico viene percepito come responsabile della salute del suo paziente.

Anche una sempre crescente e maggiore coscienza dell’”utenza” del mondo sanitario ha richiesto sempre più che i medici gestissero il programma di cura in modo trasparente e responsabile. La responsabilità medica, quale paradigma della più generale responsabilità professionale, costituisce oggi il risvolto dell’attività sanitaria e si determina laddove una prescrizione sia inadeguata e produca effetti negativi sul diritto alla salute che, rammentiamolo, è un diretto costituzionalmente garantito. Codesta locuzione di responsabilità medica ingloba tutte quelle azioni che comportano, cioè, un danno alla salute psico e fisica del paziente. Questa responsabilità ha sempre costituito una tematica molto dibattuta tanto in dottrina quanto in giurisprudenza. La delicatezza della materia è tale anche perché le vicende umane in ambito sanitario determinano una moltitudine di casi tra loro molto diversi e che non permettono sempre di sviluppare principii uniformi. La materia è stata oggetto di molteplici riforme legislative e di mutevoli orientamenti giurisprudenziali. Con la legge Gelli-Bianco n. 24 del 8.03.2017, vi è stato un importante passaggio evolutivo questo è l’ultimo capitolo di una lunga storia che ha regolato il rapporto medico-paziente prescindendo da ciò che ha comportato trattare la responsabilità sanitaria quale responsabilità contrattuale o extra contrattuale. Anche questi aspetti hanno grandemente oscillato (proprio seguendo l’evoluzione dei tempi) pur tuttavia influendo solo su due aspetti tecnicamente importanti nella regolarizzazione delle controversie e cioè il tempo di prescrizione della domanda di risarcimento e il soggetto a cui spetta l’onere della prova rispetto al danno. L’argomento è assai complesso, ma a prescindere da codeste valutazioni prettamente tecniche in tema di giurisprudenza è evidente che l’esigenza (di carattere chiaramente anche sociale) era quella di rafforzare le tutele riconosciute al paziente.

Difronte ad una casistica sempre più articolata la giurisprudenza ha dovuto dare risposte a tutte le possibili vicende che determinassero un danno e così ha dovuto regolare gli spetti attraverso i quali poter verificare se in una certa attività medica fosse ravvisabile o meno una qualche responsabilità. Ed arriviamo, quindi, ad uno degli aspetti più esemplificativi di quanto la giurisprudenza oggi sia massivamente articolata nell’individuazione delle condotte colpose del medico curante. La responsabilità medica, infatti, riguarda non solo tutte le azioni che abbiano comportato un danno alla salute del paziente, ma anche le eventuali omissioni. Chi esercita un’attività sanitaria dovrà quindi rispondere dei danni derivati anche quando questi siano la conseguenza di qualcosa che non è stato fatto. Questa specifica casistica negli ultimi anni ha fornito sempre più risposte a casi in cui è mancato un apporto di carattere sanitario che ha determinato il danno. I casi omissivi si sono sempre più delineati con chiarezza ed è evidente che il loro numero è in continua crescita. Basti pensare al mancato accertamento diagnostico (per esempio il medico che non ordina esami ed approfondimenti in presenza di una certa sintomatologia) oppure alla mancata somministrazione di farmaci di vario genere (la casistica riguarda la mancata somministrazione di svariate cure per esempio antibiotiche, antitrombotiche ecc. ecc.). In tema di responsabilità medica per omissione è necessario un giudizio controfattuale per stabilire se ciò che non è stato fatto e cioè se la cura omessa, avrebbe avuto un effetto salvifico. Tale giudizio controfattuale deve essere fatto secondo un’analisi di alta probabilità logica.

Tanto premesso, non resta che esaminare più da vicino il thema della causalità giuridica, con specifico riguarda all’ambito delle responsabilità medica.

Ebbene, nel sistema della responsabilità civile, la causalità assolve ad una duplice funzione: essa per un verso attiene al momento di accertamento della responsabilità, operando come criterio di imputazione dell’evento lesivo, c.d. causalità materiale o di fatto, descrivendo cioè la relazione esistente tra la condotta dell’agente e l’evento. Per l’altro verso, invece, concerne il momento di quantificazione del danno poiché delinea l’ambito delle conseguenze pregiudizievoli risarcibili, c.d. causalità giuridica, che esprime cioè il rapporto esistente tra l’evento/inadempimento ed il danno.

La distinzione tra causalità materiale e causalità giuridica è stata più volte ribadita dalla giurisprudenza della S.C. fin dalla nota pronuncia a SS.UU. n. 581 del 2008, proprio in thema di responsabilità medica, nella quale era stato affermato che “esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 4041 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell'intero danno cagionato, che costituisce l'oggetto dell'obbligazione risarcitoria”.

I due momenti si trovano tra loro in stretta connessione logico-temporale poiché l’accertamento della causalità materiale costituisce la fondamentale premessa affinché possa ravvisarsi una responsabilità e da cui occorre prendere le mosse per procedere all’indagine sulla causalità giuridica al fine di determinare i danni risarcibili, e questo perché non vi è necessaria coincidenza tra danno arrecato e danno risarcibile. Si tratta, insomma, di due giudizi distinti l’uno attinente all’an debeatur, l’altro, successivo, relativo al quantum debeatur, oggetto dell’obbligazione risarcitoria.

La norma di riferimento in thema di causalità giuridica è l’art. 1223 C.C. (a sua volta richiamata dall’art. 2056 C.C.), che prevede che sono risarcibili tutti i danni che siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento. La giurisprudenza di legittimità, con successivi interventi, ha progressivamente ampliato la portata precettiva della norma in commento, sancendo dapprima che vi rientrerebbero anche i danni immediati e diretti che rientrino nella serie delle conseguenze normali ed ordinarie dell’inadempimento medesimo in base ad un giudizio di probabile verificazione rapportato all’apprezzamento dell’uomo di media diligenza e, successivamente, sancendo che nonostante la norma faccia riferimento al solo danno patrimoniale nella sua duplice declinazione di danno emergente e lucro cessante, il medesimo schema della regolarità causale debba essere applicato anche al danno non patrimoniale.

Per altro verso manca, nel Codice Civile, una definizione legislativa di nesso causale e per questo motivo, in punto causalità materiale, vengono mutuati i principi espressi dagli artt. 40 e 41 C.P. coordinati con gli arresti della Giurisprudenza di legittimità contenuti nella nota sentenza a Sezioni Unite penali n. 30328/2002, c.d. sentenza Franzese. Tale pronuncia ha stabilito i principi fondamentali in tema di causalità, ancorché riferiti all’ambito del diritto penale. In estrema sintesi si stabilisce che non è consentito dedurre automaticamente l’esistenza del nesso causale dalla probabilità statistica di verificazione di un determinato evento in presenza di una determinata condotta; il giudice deve verificare la validità di tale correlazione statistica nel caso concreto sulla base delle circostanze di fatto e dei dati disponibili, ed accertare se, esclusa l’interferenza di fattori alternativi, la condotta (azione od omissione) sia stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica, ossia mediante un giudizio che si avvicina alla certezza, cioè a cento. Ed infine, che non può ritenersi sussistente il nesso causale in caso di ragionevole dubbio sulla reale efficacia causale della condotta rispetto ad altri fattori che hanno interagito nella produzione dell’evento lesivo.

Diversa, invece, l’elaborazione giurisprudenziale in ambito civile, ove la S.C., con orientamento ormai consolidato, ha stabilito che la regola dettata dalla sentenza Franzese si applica soltanto nel diritto penale e ai soli reati omissivi, mentre nell’illecito civile si applica il diverso criterio del più probabile che non secondo cui una condotta è causa di un evento se le probabilità che lo abbia causato sono pari almeno al 51%, introducendo così il criterio del più probabile che non o della c.d. preponderanza dell’evidenza.

La spiegazione della scelta compiuta dai giudici di legittimità è facilmente comprensibile avuto riguardo alla diversità di valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti che si contendono su piani paritetici.

Entro questo contesto si colloca l’accertamento del nesso causale nel sottosistema della responsabilità medica, la quale diviene il campo elettivo ed il banco di prova delle numerose teorie elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza in punto di causalità, specie alla luce della considerazione che essa per lo più riguarda fattispecie di tipo omissivo che rendono ancor più complesso l’accertamento della causalità. E’ l’ipotesi, ad esempio, dell’omessa o dell’errata diagnosi di una data patologia in ordine alla quale occorre verificare, ai fini della sussistenza della responsabilità del sanitario, se una tempestiva e corretta diagnosi avrebbe evitato l’evento dannoso. L’omessa diagnosi, infatti, non è da sola sufficiente a formulare un giudizio di responsabilità nei confronti del sanitario ma, individuata la sussistenza di un obbligo generico o specifico di tenere il comportamento omesso, occorre poter affermare che un’eventuale prognosi corretta avrebbe favorito un approccio terapeutico più efficace, secondo la logica del più probabile che non. L’indagine eziologica, insomma, implica un giudizio controfattuale di tipo ipotetico che si traduce nell’eliminazione mentale della condotta del responsabile: tale giudizio, nell’accertamento della causalità omissiva, è duplice in quanto occorre verificare non solo se l’evento dannoso è ricollegabile all’omissione, ma anche se la condotta omessa, ma doverosa, avrebbe evitato il verificarsi dell’evento. La rilevanza sotto il profilo causale dell’errata diagnosi non viene meno anche quando la condotta che si innesta non sia da sola idonea ad interrompere il nesso causale e costituisca un evento anomalo ed eccezionale rispetto al rischio e alla serie causale innescati dalla prima condotta.

Rammentiamo, inoltre, che l’obbligazione del professionista, quale è quella del medico, non rappresenta una obbligazione di risultato, ma una obbligazione di mezzi, pertanto l’inadempimento del professionista non può essere desunto, ipso facto, dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente.

In applicazione di detti principi la S.C., in un caso in cui alla omessa diagnosi di appendicite acuta era comunque seguita la risoluzione della patologia mediante intervento chirurgico, all'esito del quale era insorto uno stato di coma con pericolo di vita, ha affermato che, sostituendo alla omessa diagnosi la corretta rilevazione della patologia, sarebbe rimasto immutato, nella sequenza sopra indicata, il segmento causale successivo, posto che l'intervento chirurgico aveva trovato il diretto antecedente causale nella malattia non altrimenti trattabile e il successivo stato di coma aveva costituito un evento del tutto anomalo ed eccezionale, la cui genesi eziologica era stata assorbita nella efficienza deterministica esclusiva della condotta gravemente imperita dell'anestesista nel corso dell'intervento, rigettando così la richiesta di risarcimento dei danni: “In tema di responsabilità civile, la verifica del nesso causale tra condotta omissiva e fatto dannoso si sostanzia nell'accertamento della probabilità positiva o negativa del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio controfattuale, che pone al posto dell'omissione il comportamento dovuto. Tale giudizio deve essere effettuato sulla scorta del criterio del "più probabile che non", conformandosi ad uno standard di certezza probabilistica, che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pascaliana), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica o baconiana)”, Corte Cass. Sez. III., ord. n. 23197, del 27.112018.

In un altro caso di responsabilità medica, la S.C., in applicazione di detto principio, ha cassato con rinvio la decisione di merito che, in un caso di vaccinazione antipolio somministrata in epoca molto risalente nel tempo, aveva escluso la ragionevole probabilità scientifica dell’imputazione della poliomielite alla vaccinazione, in considerazione della bassa incidenza statistica, attestata dalla CTU, omettendo di valorizzare gli elementi presuntivi disponibili nel caso concreto, e con ciò accogliendo il ricorso dal paziente danneggiato (Cass. Civ. Sez. IV, n. 25119, del 24.10.2017).

Giova, infine precisare che, con riferimento alla responsabilità omissiva colposa, la causalità rileva non solo in senso naturalistico, ma anche in senso normativo, poiché a norma dell’art. 40, II° c., C.P. la condotta omissiva rileva se e nella misura in cui vi sia un obbligo giuridico di attivarsi per impedire il verificarsi dell’evento dannoso: la preventiva individuazione dell’obbligo giuridico, specifico o generico, di attivarsi in senso impeditivo, costituisce la premessa necessaria per l’apprezzamento della condotta omissiva sul piano causale.

Quanto, infine, alla ripartizione dell’onere probatorio, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare con qualsiasi mezzo il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolta tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza.

Con la conseguenza che nel caso in cui al termine dell’istruttoria non risulti provato il nesso tra condotta ed evento per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata. 

Un tanto secondo quanto stabilito in una pronuncia in cui la S.C. aveva confermato la sentenza che aveva respinto per mancanza di nesso causale la domanda risarcitoria proposta dai genitori perché il figlio minore, nato prematuro, era affetto da una retinopatia all’occhio destro, in astratto e in alternativa riconducibile a tre fattori, di cui solo il terzo imputabile a responsabilità dei medici o della struttura, mentre gli altri erano preesistenti alla nascita e risultavano, ciascuno, più probabilmente che non, essere la causa della patologia (Cass. Civ. Sez. III, n. 26824 del 14.11.2017).

Sempre in applicazione dei principi di riparto degli oneri probatori, secondo cui incombe sul paziente danneggiato l’onere di provare il nesso causale tra l’aggravamento o l’insorgenza della malattia e la condotta attiva od omissiva dei sanitari, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dalla paziente e dai suoi stretti congiunti, in relazione ad un ictus cerebrale che aveva colpito la prima a seguito di un esame agiografico, sul rilievo che era mancata la prova, da parte degli attori, della riconducibilità eziologica della patologia insorta alla condotta dei sanitari, ed anzi la CTU espletata aveva evidenziato l’esistenza di diversi fattori indipendenti dalla suddetta condotta, che avevano verosimilmente favorito l’evento lesivo (Cass. Civ. Sez. III, ord. n. 26700, del 23.10.2018).


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