L'azione di rivalsa della Struttura Sanitaria, tra Legge Gelli e oscillazioni giurisprudenziali

Avv. Paolo Tositti • mar 30, 2020

...alcune considerazioni sull' azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa della struttura sanitaria nei confronti dell’'esercente la professione sanitaria

Con la L. n. 24 del 08.03.2017, c.d. Legge Gelli, il legislatore ha ridefinito i principi generali in materia responsabilità medica, disciplinando, tra l’altro, all’art. 9, l'azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa della struttura sanitaria nei confronti dell’'esercente la professione sanitaria.
Da una prima lettura della norma si evince l’intenzione del legislatore di dettare una disciplina di favore nei confronti dell’'esercente la professione sanitaria, ed infatti sono stati previsti una serie di limiti, temporali e quantitativi, per l’esercizio dell’azione di rivalsa. Tale scelta si pone nel solco della ratio legis della novella che è volta a tutelare il singolo operatore nell’'esercizio della propria professione, scongiurando il timore di dover subire azioni non solo da parte dei pazienti o dei loro parenti, ma anche da parte delle strutture presso le quali lavora. Tutto questo – nell'’intenzione del legislatore – dovrebbe avere effetti benefici non solo in termini economici, mediante la riduzione della medicina difensiva, ma anche nei rapporti tra paziente e operatore sanitario nel nome di quell’'alleanza terapeutica che pareva essere ormai perduta.
Il primo comma dell’art. 9 stabilisce che: “l’'azione di rivalsa nei confronti dell’'esercente la professione sanitaria può essere esercitata solo in caso di dolo o di colpa grave”, limite che vale tanto per l’'azienda (pubblica o privata) che agisca in rivalsa, quanto per l’'assicuratore che, pagato il danno, si sia surrogato ex art. 1916, comma 1, C.C.
Se per il concetto di dolo non paiono porsi particolari questioni ermeneutiche, più delicato è il concetto di colpa grave. Per definire tale paradigma normativo si può, allora, fare riferimento all’'elaborazione giurisprudenziale delle Corti amministrative in thema di azione di rivalsa e responsabilità amministrativa, e così: “"non ogni condotta diversa da quella doverosa implica colpa grave, ma solo quella che sia caratterizzata da particolare negligenza, imprudenza od imperizia e che sia posta in essere senza l’'osservanza, nel caso concreto, di un livello minimo di diligenza, prudenza o perizia …livello minimo che dipende dal tipo di attività concretamente richiesto all’'agente e dalla sua particolare preparazione professionale…” e ancora, sussiste la colpa grave: “quando il medico ometta di compiere un’'attività diagnostica e terapeutica routinaria, atta a scongiurare determinate complicazioni”" (cfr.: Corte dei Conti Sicilia, n. 1015 del 28.03.2015). Insomma la colpa grave deve intendersi come: "“sprezzante trascuratezza, straordinaria ed inescusabile negligenza o imprudenza , grossolana superficialità, particolare noncuranza”".
Secondo quanto disposto dalla novella legislativa, dunque, in tanto potrà esserci azione di rivalsa in quanto sia accertato il dolo o la colpa grave dell’'esercente la professione sanitaria, mentre nell’'ipotesi di danno provocato da colpa lieve o lievissima la Pubblica Amministrazione non potrà esercitare alcuna azione. Il che evidentemente se non avrà particolare ripercussioni nel settore pubblico (ove tale ipotesi era già prevista ex art. 22 DPR 10.01.1957, n. 3), maggiori conseguenze comporterà in ambito privato, laddove fino all’'entrata in vigore della novella non vi erano mai stati limiti (né di dolo né di colpa grave) all’'esercizio delle rivalsa che veniva, quindi, esercitata liberamente e per l’intero.
In tale quadro ben potrebbe verificarsi una ulteriore possibilità, e cioè l’'azione di surroga intrapresa dall’'assicuratore di responsabilità civile, che ha pagato il danneggiato, nei confronti dell’'esercente la professione sanitaria responsabile del danno, il quale si troverebbe così esposto all’'azione di regresso da parte del coobbligato che abbia risarcito il danno e all’azione di surrogazione da parte dell’assicuratore della responsabilità civile di uno dei corresponsabili che abbia risarcito il danneggiato. 
Ad ogni modo, pare evidente che con l’'entrata in vigore dell’art. 9, comma 1, L. Gelli, le strutture sanitarie e i loro assicuratori troveranno un ostacolo molto forte alle azioni di rivalsa che decideranno di promuovere nei confronti degli operatori sanitari che lavorano al loro interno, in quanto avranno l'’onere di fornire la prova, oltre che del dolo, della colpa grave degli esercenti la professione sanitaria.
Il secondo comma della norma in commento, introduce il c.d. "doppio binario" per l’'azione di rivalsa, nonché un termine di decadenza di un anno per l’esercizio dell’'azione stessa, nel caso in cui l'’operatore sanitario non sia stato parte del procedimento o della trattativa stragiudiziale: “se l'’esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio o della procedura stragiudiziale di risarcimento del danno, l’'azione di rivalsa nei confronti di quest’'ultimo può essere esercitata soltanto successivamente al risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale ed è esercitata, a pena di decadenza, entro un anno dall’'avvento pagamento”.
Il legislatore ha, dunque, introdotto due tipologie di azioni rimesse alla discrezionalità della vittima dell’'errore sanitario, la quale potrà decidere di procedere in via esclusiva o contro la struttura sanitaria ed il suo assicuratore (soluzione propugnata dal legislatore) o cumulativamente contro l’azienda (ed il suo assicuratore) ed il sanitario. Nel caso il paziente danneggiato opti per la prima ipotesi, l’'azione di rivalsa esperibile dall’'azienda nei confronti del medico responsabile avrà un limite temporale dilatorio perché non potrà essere intentata (a pena di dichiarazione di improcedibilità), se non dopo che sia stato definito il risarcimento alla vittima, tanto in sede giudiziale (sulla base di un titolo definitivo? N.d.R.), quanto stragiudiziale (e cioè con accordo transattivo eseguito dalla struttura o dal suo assicuratore); nonché perentorio in quanto l’'azione potrà essere esercitata, a pena di decadenza insanabile, entro un anno dall’'avvenuto pagamento.
La ratio della norma è chiaramente quella di prevedere l’'azione di rivalsa contro il sanitario come successiva rispetto al risarcimento del danno al paziente da parte dell’azienda (e/o del suo assicuratore).
Vero è che nel caso in cui il paziente decida di svolgere la propria azione anche nei confronti dell’'operatore sanitario, nulla vieta alla struttura sanitaria (privata) e al suo assicuratore, di svolgere l’azione di rivalsa all’'interno del medesimo giudizio civile, senza dover aspettare alcun avvenuto pagamento.
A tal proposito è, infatti, pacifico l’'orientamento giurisprudenziale della S.C. secondo cui: “"l’'assicuratore, convenuto in giudizio dall’'assicurato per il pagamento dell’'indennità assicurativa, in virtù del principio di economia processuale, può agire nella medesima sede a tutela del proprio diritto di surrogazione, anche in difetto del previo pagamento di detta indennità, chiamando in causa il terzo responsabile del danno al fine di ottenere, nei confronti di questo, una sentenza condizionale di condanna alla rivalsa di quanto sarà condannato a pagare all’'assicurato a titolo di indennità, potendo egli offrire la prova dell’'avvenuto pagamento della medesima in un momento successivo alla pronunzia della sentenza di condanna in favore dell’'assicurato e di quella condizionale a suo favore"” (cfr.: Cass. Civ. Sez. III, 19.07.2004, n. 13342). L’'avvenuto pagamento dell’'indennità non è dunque condizione per l’'esercizio dell’azione di accertamento dell’'obbligo risarcitorio del terzo chiamato, ma solo della successiva ed eventuale azione esecutiva.
Anche i commi terzo, quarto e settimo, prevedono delle disposizioni a favore del sanitario. 
In particolare il terzo comma stabilisce che non fa stato nei confronti dell’'esercente la professione sanitaria la sentenza di condanna della struttura e della sua impresa di assicurazione arrivata al termine di un giudizio al quale lo stesso non ha preso parte, né (quarto comma), è opponibile all’'operatore sanitario la transazione intervenuta tra la struttura e la sua impresa di assicurazione con il paziente. Al contrario (settimo comma), se l’'esercente la professione sanitaria “è stato parte” del procedimento principale, nel giudizio di rivalsa e in quello di responsabilità amministrativa: “"il giudice può desumere argomenti di prova dalle prove assunte nel giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria o dell’'impresa di assicurazione"”. 
Mentre le disposizioni del terzo e quarto comma non si prestano a critiche e paiono del tutto condivisibili, è’ la disposizione del settimo comma a destare alcune perplessità. A ben vedere il principio ivi espresso, appare superfluo se sol si considera che ribadisce un concetto già pacifico (desumere argomenti di prova in un secondo giudizio al quale partecipano tutti i soggetti coinvolti nel primo) e già ripetutamente affermato dalla giurisprudenza della Corte dei Conti; ma anche perché nell’'ipotesi in cui il paziente danneggiato ritenga di agire nei confronti dell'’azienda e del suo assicuratore, nonché dell’'esercente la professione sanitaria, con ogni probabilità non ci sarà un secondo giudizio in quanto l’'azione di rivalsa ben potrà essere esercitata contestualmente e cumulativamente nel medesimo giudizio intentato dal danneggiato.
Vale, inoltre, la pena di osservare che gli effetti di tale ipotesi di giudizio, celebrato nel contraddittorio contestuale di tutte le parti, si riverbereranno inevitabilmente sul piano istruttorio in quanto la consulenza tecnica medico legale disposta non solo avrà delle conclusioni opponibili a tutti ma, avendo natura complessa, dovrà effettuare tutti gli accertamenti del caso con indagine volta ad individuare i contributi causali dei singoli medici intervenuti a vario titolo nella vicenda sanitaria, sussistenza o meno di un determinato grado di colpa, ecc…._ Mentre nel caso di giudizio che vedesse coinvolti solamente danneggiato, struttura ed il suo assicuratore, la consulenza potrebbe limitarsi ad accertare la sussistenza o meno di un inadempimento degli ausiliari della struttura, senza effettuare alcun ulteriore approfondimento, quale, per esempio il diverso apporto causale dei singoli operatori.
Merita, infine, evidenziare che poiché l’'esercente la professione sanitaria potrebbe non avere contezza dell’'avvio di un procedimento per l’'accertamento di una sua responsabilità, la novella, al fine di garantire il loro diritto di difesa rispetto alle pretese dei pazienti, ha introdotto (cfr. art. 13) uno specifico obbligo per le strutture sanitarie e le imprese di assicurazione di comunicare agli esercenti la professione sanitaria l’'instaurazione del giudizio basato sulla loro responsabilità. Tale comunicazione va fatta entro un termine ben preciso che, originariamente fissato in dieci giorni, è stato successivamente elevato a sessanta, allo scopo di consentire l’'esecuzione di tutti i necessari accertamenti su quali siano i medici effettivamente coinvolti nella vicenda portata all’'attenzione dei giudici. Tale obbligo di comunicazione va adempiuto mediante posta elettronica certificata o raccomanda con avviso di ricevimento che deve contenere una copia dell’'atto introduttivo del giudizio. A sottolineare l’'importanza della comunicazione vi è la circostanza che se la stessa è omessa, inviata tardivamente o incompleta, le azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa non sono ammissibili.
I commi quinto e sesto introducono dei limiti quantitativi all’'azione di responsabilità amministrativa della struttura pubblica e di rivalsa dell’'azienda privata che si possono schematicamente riassumere nei termini che seguono, riprendendo anche le considerazioni finora svolte.
Nell’'ipotesi di azione di rivalsa, rectius, di responsabilità amministrativa per danno erariale esercitata dalla struttura pubblica nei confronti dell’'esercente la professione sanitaria, in caso di dolo o colpa grave, a dare l’'impulso al procedimento sarà il Pubblico Ministero presso la Corte dei Conti, cui è attribuita giurisdizione esclusiva, posto che la giurisdizione contabile non si riferisce ai soli fatti inerenti al maneggio di denaro, ma si estende ad ogni ipotesi di responsabilità per pregiudizi economici arrecati allo Stato.
L’'azione, oltre al già richiamato (cfr, comma 2) limite temporale decadenziale di un anno dall’'avvenuto pagamento del risarcimento del danno in favore del paziente, incontra ulteriori limiti quantitativi introdotti dal comma quinto. Essi derivano in primo luogo dal potere di riduzione della Corte dei Conti la quale, chiamata a valutare le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto (secondo i noti principi di cui al R.D. n° 1214/1934, e di cui alla L.n°  20/1994, che la novella richiama espressamente, fermo quanto previsto dall’art. 1, comma 1-bis della legge 14 gennaio 1994 n° 20, e dall’art. 52, secondo comma, del testo unico regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214). In secondo luogo la Corte dei Conti dovrà tenere contro della situazione di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura sanitaria o socio sanitaria pubblica in cui si è trovato ad operare il sanitario. In terzo luogo, in ipotesi di colpa grave, la condanna non potrà in ogni caso superare il triplo della maggiore retribuzione lorda annua, o del corrispettivo convenzionale, dell’'esercente la professione sanitaria tra quella percepita nell’'anno dell'’illecito e quella immediatamente precedente o successiva. Sul punto è stato osservato da parte della Dottrina che un’interpretazione letterale della norma porterebbe a delle cifre assolutamente irrealistiche che, di fatto, renderebbero inutile la previsione del limite stesso. La norma parla, infatti, di retribuzione lorda annua “moltiplicata per il triplo”. Stando quindi alla lettera della norma, se la retribuzione annua lorda dell’'operatore sanitario fosse pari a € 50.000, il limite quantitativo non sarebbe 50.000 € x 3 = 150.000 €, ma 50.000 € x 150.000 € (50.000 € x 3) = 7.500.000.000 € (!?). In pratica la norma non avrebbe alcun senso, è evidente dunque che si è trattato di un errore materiale.
Anche l’'assicuratore della struttura pubblica che abbia risarcito il danno potrà agire in rivalsa, surrogandosi ex art. 1916 C.C. nei confronti dell’'esercente la professione sanitaria, rispettando, tuttavia, lo stesso limite temporale di un anno dall’'avvenuto pagamento sulla base del titolo giudiziale o stragiudiziale, anche se, come detto, potrebbe agire immediatamente in rivalsa nell’'ambito dello stesso giudizio risarcitorio promosso dal danneggiato, a condizione che ne sia parte l’'esercente la professione sanitaria, ed incontrando lo stesso limite quantitativo del triplo del reddito lordo massimo, interpretato nei termini anzidetti.
Solo nell’'ipotesi di azione esercitata nei confronti dei dipendenti pubblici, la norma prevede, quale pena accessoria, in caso di passaggio in giudicato della decisione di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato, che l’'esercente la professione sanitaria per i tre anni successivi non potrà essere preposto ad incarichi professionali superiori rispetto a quelli ricoperti. Il giudicato costituirà, inoltre, oggetto di una valutazione specifica dei commissari nei concorsi pubblici per incarichi superiori.
La seconda ipotesi (comma 6) è quella che prevede i limiti quantitativi nel caso di azione di rivalsa esercitata dalla struttura privata (o dalla sua impresa di assicurazione). Come detto, in caso di dolo o colpa grave la struttura potrà proporre la domanda già all’'interno del procedimento promosso dal danneggiato, purché nel contraddittorio dell’'esercente la professione sanitaria, oppure, in caso contrario, entro un anno a pena di decadenza, dall’'avvenuto pagamento del risarcimento in favore del terzo, sulla scorta del titolo giudiziale o stragiudiziale. 
Anche in questa ipotesi di rivalsa (o surroga dell’'assicuratore) opererà lo stesso limite quantitativo del triplo del reddito professionale lordo più elevato, interpretato nei termini anzidetti.
L'’ultimo periodo del comma sei prevede una terza ipotesi, e cioè quella dell’'azione di rivalsa esercitata dalla struttura privata (o dalla sua impresa di assicurazione ex art. 1916 C.C.), nei confronti del medico libero professionista non dipendente, in regime libero-professionale (cfr. art. 10, c. 2, L. Gelli). Anche in tale ipotesi l’'azione potrà essere esperita solo in caso di dolo o colpa grave e, come di consueto, proponendo la domanda già all’'interno del procedimento promosso dal danneggiato, laddove fosse stato evocato in giudizio anche il professionista; oppure, in caso contrario, entro un anno, a pena di decadenza, dall’'avvento pagamento del risarcimento in favore del terzo, sulla scorta di un titolo giudiziale o stragiudiziale. Tuttavia, a differenza delle due precedenti ipotesi, tale azione non ha alcun limite quantitativo ed, infatti, la struttura può agire per recuperare l’'intero importo pagato a titolo risarcitorio, in quanto: "“il limite alla misura della rivalsa, di cui al periodo precedente, non si applica nei confronti degli esercenti la professione sanitaria di cui all’articolo 10, comma 2”" e cioè appunto i medici liberi professionisti non dipendenti, in regime libero-professionale.
Se quella fin qui delineata è la disciplina dettata dal legislatore con la c.d. Legge Gelli, in thema di rivalsa e/o di responsabilità amministrativa della struttura sanitaria, molto più incerto è il regime dell’'azione stessa con riferimento a tutte le ipotesi verificatesi prima della sua entrata in vigore (il 1° aprile 2017). Invero la legge non regola gli effetti di natura transitoria e, dunque, nel silenzio del legislatore ed ai sensi dell'’art. 11 delle Preleggi, non dovrebbe soffrire di eccezioni al principio di irretroattività.
In assenza di precisi riferimenti normativi e di risposte assolutamente contrastanti delle Corti di merito, a tentare di fare chiarezza è stata la terza Sezione civile della Corte di Cassazione che, con la sentenza n° 28987 del 11.11.2019, una delle cc.dd. sentenze di "San Martino bis", ha tentato di dare una risposta definitiva all’'irrisolta questione, pur non potendo non considerare la novella quale:“ "indice ermeneutico d'’indirizzo a supporto"…”.
Il caso sottoposto all’esame della S.C. è quello relativo ad un giudizio di risarcimento del danno promosso da una donna che, tra il 1999 ed il 2004, si era sottoposta ad un triplice intervento chirurgico di mastoplastica al seno erroneamente eseguito e non rimediato dalle operazioni successive alla prima. L’'azione di danno veniva rivolta nei confronti del medico operante e della casa di cura privata. Il giudice di primo grado, in accoglimento delle domande proposte, condannava in solido i convenuti al risarcimento del danno e la Corte territoriale confermava la pronuncia impugnata sulla base dell’'automatica estensione, ex art. 1228 C.C., della responsabilità del medico alla struttura che se ne avvale per l’'espletamento della prestazione sanitaria, e non ammettendo alcuna differente graduazione delle colpe tra chi aveva male eseguito gli interventi e chi, la struttura, avrebbe dovuto assicurarne, anche in forza del contratto di spedalità, l’esecuzione ad opera di professionista idoneo; la Corte, di conseguenza, negava alla struttura sanitaria, che aveva corrisposto il risarcimento, la possibilità di recuperare presso il medico l’intero ammontare versato.
Avverso tale pronuncia la struttura sanitaria proponeva ricorso per Cassazione, nel quale contestava come il giudice a quo avesse mancato di rilevare che: “"poiché non era stata addebitata alcuna censurabile condotta causativa alla struttura, non poteva porsi tale posizione sullo stesso piano di quella, colposa ed eziologica, del chirurgo, sicché avrebbe dovuto affermarsi, ai fini interni del regresso, l’esclusiva responsabilità del medico”".
Ebbene, premesso che il problema della rivalsa e del diverso atteggiarsi dei rapporti interni tra struttura sanitaria e medico, talora non pare neppure percepita in dottrina come in giurisprudenza, merito della sentenza in commento è quello di aver preso le mosse disvelando l’'equivoco di fondo talora presente nella ricostruzione dell’'istituto. L'’idea per cui la struttura sanitaria avrebbe integrale rivalsa verso l’'ausiliario di cui si avvale, si radica, per la S.C., nella sovrapposizione tra fattispecie di responsabilità che, invece, dovrebbero essere tenute distinte e, cioè, quelle ex art. 2049 C.C.(responsabilità dei padroni e committenti) che contempla un’'ipotesi di responsabilità indiretta per fatto altrui, ed ex art. 1228 C.C. (responsabilità per il fatto degli ausiliari), che contempla un’'ipotesi di responsabilità diretta per fatto proprio. In particolare, sarebbe l’'erroneo inquadramento della responsabilità della struttura nella cornice dell’'art. 2049 C.C. e non in quella dell’'art. 1228 C.C. a rendere ragione della condanna a rivalse per l’'intero verso l’'ausiliario. Soluzione dalla quale, tuttavia, la S.C. rifugge.
Motiva la S.C. che nella fattispecie ex art. 2049 C.C. il padrone ed il commesso rispondono per titoli distinti, ma uno solo è l'’autore del danno; la responsabilità solidale che grava sul danneggiante ed il proprio dominus si fonda sulla scelta normativa di gravare quest’'ultimo del fatto altrui, in estensione della tutela del terzo e, quindi, in una logica di garanzia. Si è qui nell’'ambito dell’'illecito e a detta responsabilità, per scelta legislativa, si affianca quella del preponente quando il fatto illecito di base si riconnette alle incombenze delegate. Il danneggiato ha, quindi, senz’'altro azione risarcitoria nei riguardi di entrambi, ritenuti solidalmente responsabili e, se a pagare è il dominus, egli può recuperare integralmente l'’esborso presso il preposto.
Ma, prosegue la Corte, nel caso di cui all’'art. 1228 C.C. le cose si atteggiano diversamente. La responsabilità di chi ha volontariamente incaricato l'’ausiliario e organizzato attraverso questo incarico l’'esecuzione della propria obbligazione per i fini negoziali perseguiti, è per fatto proprio e non altrui. La relazione che si instaura tra l’'azienda e il danneggiato preesiste alla condotta dannosa da inadempimento ed il coinvolgimento dell’'ausiliario è esattamente funzionale all’adempimento di detta, prodromica, obbligazione. Se ciò è vero, allora, conclude la Corte, non si capisce perché si dovrebbe accordare alla azienda (debitore) il diritto di essere tenuta integralmente indenne per avere risarcito un danno da inadempimento di un'’obbligazione propria e volontariamente delegata in fase esecutiva ad un ausiliario. 
Sulla base di tali premesse, la Corte individua tre differenti soluzioni al fine di identificare i limiti quantitativi dell’azione di rivalsa.
- Danno da malpractice addebitato alla sola struttura senza diritto di rivalsa nei confronti del medico, a fronte di una condotta dell’'ausiliario inserita, senza deviazioni, nel percorso attuativo del’l'obbligazione assunta dalla casa di cura con il paziente, collocandosi quindi nel'l’area del rischio dell’'impresa sanitaria; questa ’opzione però, osserva la Corte, contrasta con la legge Gelli che, come visto, disciplina in modo esplicito all’art. 9, la rivalsa della struttura nei confronti del sanitario responsabile.
- Danno da malpractice addebitato in sede di rivalsa al solo sanitario nel caso di colpa esclusiva di quest’ultimo nella produzione dell’'evento di danno; anche tale soluzione tuttavia, è esclusa dalla riforma del 2017, che osserva la Corte: “non prevede effetti retroattivi con diritto di rivalsa integrale per l’'intero importo risarcitorio”.
- Danno da malpractice ripartito tra struttura e sanitario, anche in ipotesi di colpa esclusiva di quest’ultimo, salvo i casi, del tutto eccezionali di inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile e oggettivamente improbabile devianza da quel programma condiviso di tutela della salute che accomuna tali soggetti.
La S.C., ritenendola più conforme al diritto, sceglie di aderire all’'ultima delle ipotesi prospettate, precisando, in punto quantificazione del giudizio di rivalsa, l’'applicabilità dei criteri generali di cui agli artt. 1298 C.C. e 2055 C.C., da cui deriva la necessità di parametrare la misura del regresso alla gravità delle rispettive colpe e all'’entità delle conseguenze che ne sono derivate. In mancanza di prova da parte del solvens circa la diversa gradazione delle colpe e la derivazione causale del sinistro, dovrà però trovare applicazione il principio presuntivo di pari contribuzione al danno da parte dei condebitori solidali.
E'’ convincimento della S.C. che poiché la struttura si avvale della collaborazione di operatori sanitari per l’'adempimento della propria obbligazione contrattuale nei confronti del paziente, la responsabilità della stessa, per i danni causati dai propri ausiliari, trova radice nel rischio di impresa connaturato all’'utilizzazione dei terzi nell’'adempimento dell’'obbligazione ex art. 1228 C.C. La scelta di eseguire la prestazione mediante un ausiliario rientra nell’ambito del proprio rischio di impresa, il che vale ad escludere un diritto di rivalsa integrale della struttura stessa nei confronti del medico.
In particolare, osserva la Corte, la prestazione negligente del medico non può essere agevolmente isolata dal più ampio complesso delle scelte organizzative, di politica sanitaria e di razionalizzazione dei propri servizi operate dalla struttura; ne deriva l’'operatività del principio presuntivo di divisione pro quota dell’'obbligazione solidale tra la struttura stessa ed il medico; presunzione che potrà essere superata unicamente mediante la dimostrazione, da parte della struttura, non soltanto della colpa esclusiva dell’'operatore, ma altresì della derivazione causale dell’'evento dannoso da una condotta del medico dissonante rispetto al piano dell’'ordinaria prestazione dei servizi di spedalità, intesa come grave, ma anche straordinaria, soggettivamente imprevedibile e oggettivamente improbabile malpractice. In assenza di tale prova di interruzione del nesso causale, la struttura dovrà essere ritenuta corresponsabile, sul piano dei rapporti interni, secondo la presunzione di pari contribuzione del danno di cui sono espressione l’'art. 1298, comma 2, C.C. e l’'art. 2055, comma 3, C.C. Diversamente opinando, conclude la S.C., una rivalsa integrale della struttura nei confronti del medico farebbe carico al solo sanitario del rischio di impresa, invece gravante sull’azienda ospedaliera, dovendo la stessa conformarsi a criteri di organizzazione e gestione oggettivi distinti da quelli che governano la condotta del singolo medico. 
In applicazione di tali principi la S.C. ha rigettato il ricorso, non avendo la struttura sanitaria ricorrente provato né allegato alcuna prevedibile e del tutto dissonante malpractice medica tale da interrompere il nesso di causa tra la propria condotta e il danno lamentato dalla paziente.

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