Onere probatorio nella responsabilità medica

Avv. Stefania Trivellato - Dott. Andrea Semenzato • mar 27, 2020

alcune considerazioni

L’onere della prova nella responsabilità medica

Con la locuzione “responsabilità medica” ci si riferisce a tutte quelle azioni od omissioni che abbiano comportato un danno alla salute psico-fisica del paziente ad esempio a seguito di una condotta colposa (o dolosa) del medico curante, di una carenza strutturale della struttura sanitaria o, ancora, della mancanza del consenso informato del paziente medesimo. 
Siffatta responsabilità ha sempre costituito una tematica particolarmente dibattuta tanto dalla Dottrina quanto dalla Giurisprudenza, in ragione della delicatezza della materia nonché a causa della moltitudine di casi tra loro molto diversi che non permettono agevolmente di sviluppare dei principi uniformi.
Sul punto, una delle problematiche più controverse discusse negli ultimi decenni è stata quella relativa alla qualificazione giuridica della responsabilità medica verso il paziente, con riferimento tanto al medico curante quanto alla struttura sanitaria interessata. 
L’argomento in parola è tutt’altro che di scarso rilievo: identificare la responsabilità come contrattuale od extra-contrattuale comporta tutta una serie di differenziazioni sul piano sostanziale e processuale, sia per ciò che concerne i tempi di prescrizione (dieci anni nel primo caso, cinque nel secondo), sia relativamente al riparto dell’onere della prova. 
La Legge 24/2017 (c.d. Legge Gelli-Bianco) è stata rivoluzionaria e (parzialmente) risolutoria in tal senso. 
Essa ha infatti distinto, all’articolo 7, commi 2 e 3, la responsabilità medica della struttura sanitaria rispetto a quella del medico operante presso la stessa: per la prima, la responsabilità avrà sempre natura contrattuale; per il secondo, extra-contrattuale.
Come abbiamo già avuto modo di esporre in altri scritti in precedenza fino a quel momento, la giurisprudenza maggioritaria era orientata a qualificare la responsabilità anche per l’esercente la professione sanitaria come contrattuale, facendo leva sul c.d. “contatto sociale”.
Attraverso la diversa qualificazione circa la natura della responsabilità del medico operante, anche l’onere della prova, come si è già avuto modo di anticipare, ha subìto una diversa ripartizione. 
Infatti, l’assenza di un rapporto contrattuale diretto tra il medico c.d. “strutturato” ed il paziente (poiché questo è stato posto in essere tra il paziente e l’ente ospedaliero o la casa di cura), comporta l’applicazione dell’art. 2043 c.c., e non più del 1218 c.c. 
In ragione dell’operatività della responsabilità aquiliana, non sarà allora sufficiente per il paziente allegare il mero inadempimento, ma sarà altresì tenuto a provare la colpa del medico ed il nesso causale.
La Suprema Corte in molteplici pronunce si è perfettamente conformata a quanto finora evidenziato, statuendo che “è dunque onere del paziente danneggiato provare che la condotta del sanitario è stata la causa del danno, di cui si chiede il risarcimento, secondo il criterio del “più probabile che non”, sicché ove la stessa sia rimasta incerta, la domanda deve essere rigettata.” (v. Cass., Sez. VI, ord. n. 21939 del 02.09.19; Cass., III sez., n. 18392 del 26.07.2017; v. altresì le sentt. 7 dicembre 2017, n. 29315; 29 gennaio 2018, n. 2061; 15 febbraio 2018, n. 3704; 2 marzo 2018, n. 4928; 30 ottobre 2018, n. 27446; nonché le ordinanze 13 luglio 2018, n. 18540; 19 luglio 2018, n. 19204; 22 agosto 2018, n. 20905; 13 settembre 2018, n. 2227; 12 ottobre 2018, n. 2537). 
Una volta dimostrato il nesso eziologico tra lesione, la malattia o il suo aggravamento – da un lato - con la condotta commissiva od omissiva del medico curante – dall’altro - spetterà all’ente ospedaliero o alla casa di cura provare che l’inadempimento derivi da prestazione divenuta impossibile per causa a lei non imputabile, o che lo stesso derivi da un evento imprevedibile e inevitabile secondo la comune diligenza (Cass. Civ., ord. n. 7044 del 21.03.2018; v. anche sentenze nn. 28989, 28991 e 28992 del 11.11.19). Rispetto alle tre sentenze appena richiamate corre l’obbligo di fare una digressione. Queste tre sentenze dell’11 novembre 2019 fanno parte del gruppo delle così dette “sentenze di San Martino bis”. Tale insieme di 10 sentenze hanno tutte ad oggetto la materia della responsabilità sanitaria. La III Sezione della Suprema Corte si è occupata di fornire chiarimenti in merito ad una serie di aspetti della materia. Una sorta di vademecum che per lo più conferma e perfeziona alcune decisioni consolidando orientamenti già noti ma, altre volte, innova o specifica aspetti della materia.
La responsabilità contrattuale, di norma, si concretizza nel momento in cui il soggetto-creditore patisca un danno derivante dall’inadempimento. In questo senso non rileva quindi che il danno sia “ingiusto” (come invece è richiesto nella responsabilità extra-contrattuale ex art. 2043 c.c.), in quanto “è la fonte contrattuale dell’obbligazione che conferisce rilevanza giuridica all’interesse regolato”. A fortiori, “se la soddisfazione dell'interesse è affidata alla prestazione che forma oggetto dell'obbligazione vuol dire che la lesione dell'interesse, in cui si concretizza il danno evento, è cagionata dall'inadempimento”. In questo senso, dunque, l’inadempimento corrisponde in toto al danno-evento. 
Il fatto materiale, venendo integralmente assorbito dall’inadempimento, comporta – sotto il profilo probatorio – che il creditore debba dimostrare unicamente la causalità giuridica e la fonte del diritto di credito. Conseguentemente, l’inadempimento – coincidente con la causalità materiale – sarà solo oggetto di allegazione. 
Ebbene, questo percorso argomentativo – dice la Suprema Corte – non regge nel momento in cui la prestazione consista in un facere professionale, poiché “se l’interesse corrispondente alla prestazione è solo strumentale all’interesse primario del creditore, causalità e imputazione per inadempimento tornano a distinguersi anche sul piano funzionale (e non solo su quello strutturale)”. 
Detto in altri termini, nelle prestazioni professionali sanitarie, l’allegazione dell’inadempimento non dimostra in re ipsa che lo stesso sia “causa” del danno patito, in quanto quest’ultimo potrebbe avere un’origine diversa dall’inadempimento medesimo. “La violazione delle regole della diligenza professionale non ha dunque un'intrinseca attitudine causale alla produzione del danno evento” (Sent. n. 28992 del 11.11.2019).
Da ciò quindi non può che concludersi che sia vero il contrario e cioè che nelle obbligazioni contrattuali non professionali il creditore avrà l’onere solo di provare la connessione tra l’inadempimento e il danno lamentato. Tale prova, concludono gli Ermellini, può essere raggiunta anche mediante presunzione. 
Questa ripartizione probatoria conclude nel senso che “in ambito di responsabilità professionale sanitaria, la previsione dell'art. 1218 c.c. solleva il creditore dell'obbligazione che si afferma non adempiuta (o non esattamente adempiuta) dall'onere di provare la colpa del debitore, ma non dall'onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento” (Cass., Sez. III, n. 6593 del 07.03.2019).
Il principio appena esposto è denominato di vicinanza alla prova: infatti, l’art. 1218 c.c. vincola il soggetto presuntivamente inadempiente o parzialmente adempiente di provare l’adempimento o l’esattezza dello stesso. Tuttavia, in thema di nesso eziologico tra il danno dell’utente e l’evento che lo ha cagionato, la distanza dalla prova tra debitore e creditore è, per così dire, “equidistante”. 
In questo contesto, allora, non opererà il principio di cui all’art. 1218 c.c., bensì quello di cui all’art. 2697 c.c., che impone a chiunque voglia far valere un proprio di diritto, di provarne i fatti a suo fondamento. Tale principio prevede di tenere conto nel concreto della possibilità di provare circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione. Per questo è ragionevole gravare dell’onere probatorio la parte a cui è più vicino il fatto da provare. Tale principio trova piena applicazione proprio nei casi in tema di responsabilità sanitaria. È molto importante che un paziente (creditore) ipotetico danneggiato sia consapevole di dover dimostrare il nesso causale anziché avere l’aspettativa che sia il debitorie (struttura medica) ipotetico danneggiante a doverlo fare. 
In conclusione testualmente si legge che ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l’esatta esecuzione della prestazione. Ergo da ciò dipende che se resta ignota - anche mediante l’utilizzo di presunzioni - la causa dell’evento di danno, le conseguenze sfavorevoli ai fini del giudizio ricadono sul creditore della prestazione professionale, se invece resta ignota la causa dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione di diligenza professionale, ovvero resta indimostrata l’imprevedibilità ed inevitabilità di tale causa, le conseguenze sfavorevoli ricadono sul debitore. 
La Corte oramai ha scelto questa strada confermandola anche nelle sentenze riepilogative più recenti di cui parlavamo poc’anzi (“San Martino bis”) e ciò deve essere ben chiaro laddove un paziente inizi una azione di responsabilità sanitaria. La ratio è evidente: il principio pone a carico del danneggiato (attore/ricorrente) la prova degli elementi costitutivi della propria pretesa e non permette che sia il presunto danneggiante a doversi fare carico della prova liberatoria rispetto al nesso di causa soprattutto se non provato.








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